Donald insegue la rivincita

Hillary Clinton ha vinto il primo round. Ma il suo non è stato un trionfo. I duelli tv raramente sono decisivi nella storia delle elezioni americane. E comunque ne rimangono ancora due, dove Donald Trump può inseguire una rivincita. È questa la situazione, dopo il verdetto dei primi sondaggi che hanno giudicato la storica serata del 26 settembre alla Hofstra University di Long Island, nello Stato di New York. Quella sera quasi 100 milioni di americani hanno guardato il dibattito fra i due candidati democratica e repubblicano (ce ne sono altri due in gara: Gary Johnson per il partito libertario e Jill Stein per i verdi, ma nessuno di loro ha raggiunto la soglia del 15% nei sondaggi che viene richiesta per essere ammessi al dibattito televisivo). 
Hillary nella rilevazione demoscopica di Politico.com e Morning Consult ha tre punti di vantaggio su Trump e il beneficio netto di quello scontro televisivo sembra reale. Ma non immenso. Lo stesso sondaggio, effettuato alla vigilia del duello tv, dava la Clinton davanti di un punto. Quindi l’effetto netto del duello in tv sarebbe un rimbalzo positivo di due punti percentuali, buono ma non clamoroso. D’altra parte gli stessi elettori intervistati nell’indagine Politico/Morning Consult rivelano che solo per il 9% tra loro il dibattito ha provocato un cambiamento nelle intenzioni di voto. Questo non stupisce gli osservatori della politica americana. La fedeltà di partito è aumentata nel corso del tempo, la fascia degli indipendenti che decidono solo all’ultimo per quale candidato votare, si è assottigliata. Conta di più, all’interno di ogni campo, la capacità di un candidato di galvanizzare i suoi e di portarli in massa alle urne, in un paese dove l’assenteismo è molto elevato. Detto questo, visto che all’appuntamento televisivo del 26 settembre si era arrivati in una situazione di quasi parità fra la Clinton e Trump, anche spostare due punti percentuali di elettori è un buon risultato. 
Altro segnale inequivocabile: il fatto che nel dopo-partita Trump si sia lamentato ripetutamente. «Mi hanno dato un microfono difettoso». «Il moderatore non è stato imparziale». Fino ad agitare una teoria del complotto su Google: «Il motore di ricerca elimina le notizie negative su Hillary». Non è l’atteggiamento di un vincitore. Del resto nell’entourage di Trump molti suoi consiglieri erano furibondi, imputavano la sua performance negativa all’improvvisazione. Il proverbiale istinto da showman del tycoon newyorchese stavolta lo ha tradito. Interrompere 51 volte Hillary, dandole sulla voce, non è stata una buona idea. Nel confronto uomo-donna lei aveva i nervi a posto, lui soprattutto verso la fine era scomposto. La sua misoginia, l’improvvisazione sui temi fondamentali, gli scheletri nell’armadio come l’opacità fiscale e altre bugie (anche lei non scherza, ma non c’è gara) gli hanno nuociuto. Gli alleati nel mondo, dall’Europa al Giappone, sulla base del primo match forse possono essere un po’ meno terrorizzati in vista dell’8 novembre. Eppure Trump era partito bene, mettendola in difficoltà su uno dei temi fondamentali, l’economia. 
Lui ha saputo parlare agli operai, agli Stati industriali che possono risultare decisivi (Michigan, Ohio). Trump ha lanciato un duro attacco al libero scambio: «I nostri posti di lavoro fuggono in Messico e in Cina, dobbiamo trattenerli, e questo governo non ha fatto niente. I trattati di liberalizzazione sono un disastro: il Nafta che firmò Bill Clinton, il Tpp che Barack Obama vuole e che Hillary aveva appoggiato. Io li rinegozierò tutti». È stato uno dei suoi momenti più efficaci, in una fase in cui la globalizzazione è impopolare. Ha lanciato un’esca anche verso i seguaci di Bernie Sanders.
Lui ha corteggiato anche i contribuenti benestanti e il movimento anti-tasse del Tea Party. Trump come un novello Ronald Reagan promette «meno tasse a tutti». Nel dettaglio però sono le imprese e i più abbienti a guadagnare dal suo piano: «Ridurrò dal 35% al 15% la tassa sugli utili delle imprese, e vedrete un boom di occupazione come non c’era da tempi di Reagan. Hillary vi aumenterà le tasse e tutte le regole, la burocrazia. La ripresa sotto Obama è la più debole dai tempi della Grande Depressione, è una bolla speculativa creata dalla Fed». Ha detto le cose che la base repubblicana vuole sentire, ha descritto la Clinton come la classica democratica di sinistra, «tassa-e-spendi». La sua descrizione catastrofica dell’economia americana non corrisponde ai fatti e tuttavia una maggioranza di americani nei sondaggi dice che «il paese è sulla cattiva strada».
Sulla questione razziale, le proteste dei neri, i due hanno parlato alle proprie constituency. Trump: «Legge e ordine: se non li abbiamo, non abbiamo più una nazione. I quartieri degradati delle nostre città sono un inferno. Sembriamo un paese devastato da una guerra. Le gang sono piene di immigrati clandestini. Le associazioni di polizia stanno dalla mia parte. Dobbiamo ripristinare il metodo “stop&frisk” (i controlli di polizia sistematici, accusati di prendere di mira sistematicamente i giovani neri e ispanici, ndr)». Hillary: «Dobbiamo ricostruire la fiducia attraverso il rispetto reciproco tra le comunità e le forze di polizia. Riformare il nostro sistema di giustizia penale. Limitare l’accesso alle armi. Chiudere le prigioni private gestite a scopo di lucro. C’è un razzismo implicito quando i giovani neri per gli stessi reati finiscono in carcere molto più dei bianchi». È un pareggio perché ciascuno evoca valori diversi, un modello di società ben preciso. All’America bianca e conservatrice piace il linguaggio d’ordine del repubblicano. Mentre la Clinton mostra sensibilità verso la comunità afroamericana e il movimento BlackLivesMatter. Ha ragione lei quando sostiene che i reati continuano a scendere da decenni e l’America non è in una condizione così disastrosa come la descrive il suo avversario. Ma terrorismo e scontri razziali aumentano la paura e possono aiutare lui.
In politica estera Trump ha segnato punti descrivendo il mondo come «un caos», il Medio Oriente in una situazione minacciosa che mai. È piaciuto all’elettorato patriottico rilanciando le sue accuse agli europei «che non pagano il conto per la propria difesa». Lei ha rassicurato gli alleati, dalla Nato al Giappone … che però non votano l’8 novembre. Lei ha rassicurato anche quegli americani favorevoli ad una strategia anti-terrorismo che non alieni l’intero mondo islamico.
Tra gli elettori che non hanno ancora deciso cosa fare l’8 novembre, probabilmente hanno fatto centro gli attacchi personali di Hillary sulla moralità di Trump: il rifiuto di pubblicare le dichiarazione dei redditi («sei il primo candidato in 40 anni, cos’hai da nascondere?»), la «bugia razzista su Obama nato in Kenya», le «sei bancarotte con cui hai rovinato tanti lavoratori».
E i giovani? Hillary li ha cercati promettendo università gratis ai meno abbienti. L’accenno alle energie rinnovabili e al negazionismo climatico di Trump era doveroso ma un po’ fugace visto che una parte dei giovani è attratta dal voto di protesta per la candidata verde Jill Stein. Né lei né lui hanno un vero appeal verso le nuove generazioni, a differenza di Barack Obama.
L’elettorato dove Trump ha probabilmente perso più consensi è quello femminile. Oltre all’insolenza e alla prepotenza che lui stesso non riusciva a trattenere, Trump ha osato parlare di «mancanza di grinta» della sua avversaria e lei fredda ha replicato «ne riparleremo quando avrai visitato 112 Stati esteri come me». Lei ha rievocato gli insulti sessisti che lui usava con le candidate a Miss Universo o nello show The Apprentice. L’esperienza di quella serata televisiva deve essere stata particolarmente irritante per le donne, a prescindere dal loro orientamento politico. Sono milioni le donne che in vita loro – soprattutto negli ambienti di lavoro – hanno subito il «trattamento Trump» da parte di colleghi maschi. La psicologa texana Janet Scarborough Civitelli che su «U.S. News and World Report» dice: «Molte donne che hanno assistito al trattamento inflitto da Trump alla Clinton hanno provato un senso di nauseabonda familiarità. La loro esperienza è esasperante: non importa quanto siano brave e quanto lavorino duramente, c’è sempre un uomo molto meno competente di loro che è pronto a criticarle».
Il «New York Times» ha dedicato al tema addirittura un editoriale non firmato della direzione: «Hillary Clinton’s Everywoman moment», un titolo che sottolinea appunto come quella serata sia stata un’esperienza da «donna media». Un mix di umiliazione, sopportazione e tenacia in cui tante di loro possono riconoscersi. Nella pagina dei commenti dello stesso quotidiano Jessica Bennet, una studiosa dei problemi femminili nei luoghi di lavoro, ha coniato un neologismo: «Manterrupted», cioè l’essere interrotta da un uomo, per descrivere una delle esperienze più frequenti in una riunione aziendale. Hillary godeva già prima di un nettissimo vantaggio fra le elettrici, mentre Trump ha un vantaggio speculare tra i maschi. Ma per la candidata democratica restano da conquistare alcune fasce di elettrici a basso livello d’istruzione, le «casalinghe dei suburbs», bianche e appartenenti al ceto medio-basso. Lì si annida ancora una percentuale consistente di indecise. Lo spettacolo di maleducazione dato da The Donald forse le porterà a spezzare gli indugi. Lui però dovrà stare attento nei prossimi duelli. Nelle prime reazioni ha promesso che attaccherà Hillary sulle infedeltà del marito, andrà giù pesante con le accuse personali: ma se sceglie quel registro rischia di rafforzare la sua immagine di bullo maschilista.

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