In valigia le buone emozioni

Air Canada ha annunciato che dal 2017 i passeggeri dovranno pagare un supplemento di costo anche per il bagaglio emozionale che portano con sé in cabina: ansia, paura, rabbia, frustrazione ecc. Jacqueline Villeneuve, responsabile della comunicazione della compagnia aerea, ha spiegato che non sarà più trasportato gratis, come in passato; il costo del bagaglio emozionale dipenderà dallo spazio occupato, dal disturbo arrecato agli altri passeggeri e dalla sua natura. Per esempio razzismo, omofobia e misoginia avranno un costo aggiuntivo di cinquecento dollari, dal momento che sono particolarmente ingombranti e fastidiosi. In ogni caso, per ragioni di sicurezza, nessun passeggero potrà portare in cabina più di due bagagli emozionali a mano; il resto nella stiva. Naturalmente è possibile che il bagaglio emozionale, come ogni altro bagaglio, vada smarrito ma in quel caso un apposito ufficio vi aiuterà a ritrovarlo.
Ci siete cascati? Naturalmente è una finta notizia (fake) della compagnia radiotelevisiva canadese (www.cbc.ca). Ma ha un bel fondo di verità.
Per cominciare, da qualche tempo sugli aerei capitano le vicende più strane. Per restare in Canada, su un volo New Jersey-Toronto un passeggero ebreo ortodosso ha rifiutato di sedersi accanto a una donna, che ovviamente non l’ha presa bene. Immaginate voi il resto. Tali questioni causano abitualmente ritardi nei voli da New York a Israele (a volte anche con strascichi legali) o in Arabia Saudita. Ecco un ottimo esempio di quanto sarebbe davvero opportuno lasciare a terra il proprio bagaglio di pregiudizi, oppure smarrirlo in qualche remoto aeroporto.
È poi vero che spesso partiamo senza la necessaria serenità d’animo. Certo in un primo momento, quando la data si avvicina, ci aspettiamo che il cambiamento di luogo si accompagni a nuovi pensieri e nuovi sentimenti, più sereni e luminosi. Le fotografie sui dépliant turistici e sulle riviste ci promettono la felicità e quasi ci sembra di poterla già assaporare. In un certo senso, quando immaginiamo il nostro viaggio, è come se fossimo già lì. Ma poi commettiamo un errore irreparabile. Partiamo portando dietro inavvertitamente il peggiore dei compagni di viaggio: noi stessi.
Per questo, una volta arrivati nella nostra meta, raramente riusciamo a essere veramente presenti: i nostri pensieri si volgono all’indietro, a vicende familiari non risolte, al lavoro rimasto incompiuto, al collega che non abbiamo avvisato, a bollette in scadenza o a una lampadina che potremmo aver dimenticato accesa. Oppure, altrettanto di frequente, la mente corre verso il futuro e prefigura quel che ci attende al ritorno: aspettative, timori, progetti e buone intenzioni si accavallano confusamente. 
Sgombrare la mente dai troppi pensieri fuori tempo non è facile. Ai suoi studenti dell’Università di Berkeley George Lakoff propone spesso questo esercizio, apparentemente semplice: qualunque cosa succeda, i ragazzi non devono pensare a un elefante. Naturalmente appena il professore finisce di pronunciare queste parole il pensiero di un elefante, di solito evenienza abbastanza rara, diventa una sorta di ossessione onnipresente. Diverse soluzioni sono state proposte. Per esempio molti credono che una vacanza dovrebbe durare non meno di tre settimane, nella speranza che almeno quella di mezzo sia libera da troppi pensieri. Altri consigliano di evitare i villaggi turistici o altre soluzioni stanziali, perché lasciano troppo tempo libero, nel quale è inevitabile ricadere nelle proprie preoccupazioni. Meglio muoversi senza sosta, distrarsi continuamente e arrivare ogni giorno in una nuova città, come nel caso dell’Interrail. Provate, magari funziona.
Del resto tutto questo era ben noto già al poeta latino Orazio, quando scriveva che «attraversando il mare cambiamo cielo, non animo». Ma anche quando non riescono perfettamente, i viaggi ci insegnano sempre qualcosa. La lezione più importante potrebbe essere questa: nonostante tutti i chilometri percorsi, gli incontri, le avventure, il viaggio non è uno spostamento fisico. È invece prima di tutto una condizione della mente, un’esperienza interiore, qualcosa che cambia dentro di noi. Un grande viaggiatore come Paul Theroux lo ripeteva sempre. Per la sua generazione, i baby boomer nati dopo la Seconda guerra mondiale, era evidente: non è la meta che conta – fosse pure la fascinosa Kathmandu cantata da Bob Seger – ma la strada, in attesa di quell’illuminazione – Kerouac la chiamava «la perla» – che il viaggio promette. Poi però sono arrivati gli anni Ottanta, l’industria del turismo si è imposta su scala globale e anche i viaggi sono diventati una forma di consumo dal quale ricavare gratificazioni esteriori, divertimento e prestigio. La felicità è diventata un luogo, un paradiso del quale l’industria turistica possiede le chiavi. 
Da questo punto di vista la crisi attuale ha avuto quanto meno il merito di riportare l’attenzione sulle esperienze interiori, sul viaggio lento, profondo, consapevole. Perché la vera sfida per noi «Viaggiatori d’Occidente» non è solo liberarci dalla zavorra di pensieri negativi attraverso il viaggio, quanto piuttosto riportare nella vita quotidiana quella stessa leggerezza e apertura della mente che abbiamo sperimentato in terre lontane, così da trasformare ogni nostra giornata in un continuo viaggio di scoperta.

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