Che cos’è la storia? La riflessione su questo tema non è appannaggio degli storici e dei teorici della storiografia, perché rispondere al quesito significa dare un senso agli eventi e quindi anche alla nostra vita. Negli ultimi decenni del Novecento vi ci sono cimentati, tra gli altri, il poeta Eugenio Montale e il cantautore Francesco De Gregori.
Il primo nella sua lirica La storia, scritta nel 1969 e pubblicata nel 1971 nella raccolta Satura, ci dice soprattutto, attraverso un testo scandito, nei primi 29 versi, da una martellante sequenza di frasi negative, che cosa non è la storia. Attraverso l’anafora “La storia non” il poeta polemizza a tutto campo con le più disparate concezioni storiografiche: lo storicismo, per il quale gli eventi costituiscono una catena ad anelli stretti dalla necessità (vv. 1-3); la visione hegeliana della storia come opera dello Spirito (il «chi la pensa» del v. 11) e quella marxiana e marxista che ne attribuisce la regia al proletariato (il «chi l’ignora» del v. 12); l’idea che la storia proceda in modo lineare e graduale (vv. 13-17); la concezione, risalente a un filone della storiografia greca (a partire da Tucidide), ma resa famosa dalla formulazione ciceroniana historia magistra vitae, a cui il poeta ribatte, con disincantato realismo, che la storia non insegna nulla (vv. 24-25). Nella seconda parte, attraverso le metafore della ruspa (vv. 28 ss.) e della rete a strascico (vv. 36 ss.), Montale evidenzia, contro ogni illusione del razionalismo, la casualità e l’incompletezza dell’azione distruttrice della storia (nei confronti dei periodo precedenti) e di quella disvelatrice della storiografia.
Un controcanto alla poesia di Montale può essere considerata la canzone La storia di Francesco De Gregori, pubblicata nel 1985 nell’album Scacchi e tarocchi e divenuta ben presto famosa, tanto che il suo titolo fu assunto da una fortunata trasmissione televisiva italiana a cura del giornalista Giovanni Minoli. Che il cantautore conoscesse l’omonima poesia di Montale è dimostrato perlomeno dal terzultimo verso (la storia non ha nascondigli), che rovescia intenzionalmente l’affermazione montaliana secondo cui la storia “lascia sottopassaggi, cripte, buche / e nascondigli” (vv. 30-31).
A differenza della poesia di Montale, prevalentemente caratterizzata da una sequenza di frasi negative, il testo della canzone è scandito dall’insistente iterazione anaforica dell’affermazione “la storia siamo noi”, che apre e chiude circolarmente la composizione (vv. 1, 3, 4, 14, 24, 28) ed è ulteriormente amplificata dalla ripresa (anadiplosi) “siamo noi” (vv. 4, 14, 24, 25, 28), mediante la quale vengono introdotte alcune esemplificazioni atte a illustrare il concetto di “noi” come attore della storia.
Attraverso una serie di definizioni, prevalentemente in positivo, della storia (oltre alla frase chiave La storia siamo noi si vedano i vv. 12-13, 22), De Gregori polemizza contro la concezione aristocratica che vede in essa il prodotto di élites intellettuali («quelli che hanno letto milioni di libri», v. 20), ribadendo la visione marxiana secondo cui la storia è invece creazione dell’intero popolo (è la gente che fa la storia, v. 16), e in particolare degli strati socialmente inferiori (il proletariato), poco disposti a rimanere in silenzio o chiusi dentro casa perché tanto tutti rubano alla stessa maniera (v. 8), e pronti a schierarsi e a partire quando si tratta di compiere con lucidità (v. 18) le scelte giuste (De Gregori allude qui alla resistenza italiana, com’è evidente in particolare dal riferimento alla canzone partigiana Bella ciao al v. 25).
L’insofferenza nei confronti del malcostume politico che traspare dai vv. 7-10 è tipica della temperie culturale degli anni in cui la canzone fu composta, caratterizzata da una forte richiesta di moralizzazione della vita pubblica: mancavano meno di dieci anni all’inizio dell’indagine contro la corruzione politica in Italia passata alla storia come ‘Mani pulite’, nel corso della quale l’antico luogo comune popolare che in politica tutti rubano sarebbe stato utilizzato a scopo di difesa personale da più di un politico, e in particolare da Bettino Craxi, già presidente del Consiglio e indiscusso leader del Partito Socialista Italiano.
Chiudiamo queste noterelle ricordando che, a proposito della presunta funzione didascalica della storia (historia magistra vitae), una posizione intermedia tra la concezione “ciceroniana” e quella radicalmente negazionista di Montale è stata assunta recentemente da Francesco Guccini. Rispondendo a una domanda del giornalista su “Appennino ed emigrazione. Perché talvolta non ci si dimostra disposti ad accogliere?”, il cantautore ha affermato: “L’uomo, non tutti per carità, guarda pochi metri accanto a sé. E si scorda presto. La storia è maestra di pochi. Insegna poco davvero, a noi italiani. Siamo partiti con le pezze al culo, e adesso ci dimentichiamo che chi viene qui ha la stessa faccia di noi cento anni fa.
Ecco, Odysseus su questo avrebbe qualcosa da dire” (da Guccini: "La storia è maestra di pochi", in “Gazzetta di Parma”, 6 aprile 2011). Ebbene, considerando la storia non troppo remota del nostro Cantone, che fu pure terra d’emigrazione, potremmo affermare che le parole di Guccini sono applicabili anche alla realtà ticinese. Senonché – come ha recentemente sostenuto Umberto Eco (Caro nipote: studia a memoria, in “L’Espresso”, 3 gennaio 2014; Quanto è importante la memoria per non vivere in un mondo appiattito, ivi, 8 gennaio 2014 = L’ottusa Teresa, in Id., Pape Satàn Aleppe, La nave di Teseo, Milano 2016, pp. 73-75) – la perdita della memoria, e in particolare della memoria storica, ha assunto dimensioni patologiche con le ultime generazioni, caratterizzate da un appiattimento sul presente favorito proprio dal ricorso sempre più generalizzato alle memorie elettroniche.