Il governo di Netanyahu continua la sua strategia del fatto compiuto e permette la costruzione di «unità abitative» nei territori palestinesi occupati
Il 23 dicembre scorso il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato la risoluzione no. 2334 che ha definito «illegale» la creazione di insediamenti ebraici nei Territori occupati da Israele nel corso della Guerra dei Sei giorni del 1967 e ha chiesto allo stesso Israele di interrompere «immediatamente e completamente» il processo di colonizzazione nonché di «smantellare gli insediamenti costruiti dopo il marzo 2001». La colonizzazione, infatti, costituisce «una flagrante violazione della legge internazionale e uno degli ostacoli maggiori alla realizzazione della soluzione dei due Stati» nonché «ad una pace giusta, duratura e comprensiva» ovviamente tra israeliani e palestinesi.
Il testo della 2334 ricalca quello di altre risoluzioni simili, non ultima la 446 del 1980 che già cercava di fermare la colonizzazione nei Territori. Lo sconcerto che ha provocato in Israele è stato causato dall’astensione con cui gli Stati Uniti l’hanno accolta senza opporre il veto (come hanno sempre fatto contro pronunciamenti contrari ad Israele), mentre gli altri 14 membri del Consiglio di sicurezza hanno approvato la risoluzione all’unanimità. Così, essendo gli Usa un alleato storico dello Stato israeliano, automaticamente è diventata storica anche l’astensione americana del 23 dicembre. Un fatto di rilievo, dunque, che ha sorpreso Israele, il quale Israele – non scordiamolo – vive in un contesto regionale che lo ha sempre rifiutato e attualmente è più conflittuale che mai. Detto in altre parole Israele non può permettersi di perdere l’ombrello protettivo degli Stati Uniti.
Ma il valore della risoluzione, come chiariremo tra breve, è soprattutto simbolico. Perché allora definire addirittura «vergognosa» la 2334 come ha fatto il premier israeliano Benjamin Netanyahu o accusare il presidente americano uscente, Barak Obama, di aver «complottato contro Israele» per vendicarsi dei rapporti piuttosto tesi intercorsi tra di loro? Perché in Israele la 2334 è stata interpretata alla stregua di un tradimento dal governo in carica?
La risoluzione 2334, come quelle simili che l’hanno preceduta, non è vincolante, non comporta cioè sanzioni in caso venga disattesa. Scendendo più nel dettaglio neanche la 2334 rimanda al capitolo VII della Carta Onu che autorizza il ricorso alla forza per assicurare la pace e la sicurezza. È una raccomandazione o, se si preferisce, un monito, non un’ingiunzione. Il problema allora diventa un altro: le colonie ebraiche nei Territori costituiscono o non costituiscono una minaccia alla pace e alla sicurezza? Le Nazioni Unite non le hanno mai definite tali, ma nella misura in cui sottraggono terra ai palestinesi, possono impedire la nascita di un loro Stato. Questo ieri, oggi e domani costituirà sempre motivo di scontento, rabbia e violenza tra i palestinesi stessi, specie se i premier israeliani in carica – ed è il caso di Netanyahu – congelano completamente il dialogo di pace persino con la controparte palestinese più moderata, cioè il presidente dell’Anp (Autorità nazionale palestinese) Abu Mazen.
Oggi in Cisgiordania e a Gerusalemme Est le colonie ebraiche sono almeno 140 e i coloni almeno 430’000 in Cisgiordania e 200’000 a Gerusalemme Est. Parliamo solo degli insediamenti ritenuti legali in Israele, perché ne esistono altre decine di «illegali» anche per la stessa legge israeliana. A Gaza, come è noto, le colonie ebraiche esistenti sono state smantellate nel 2005 quando la Striscia è stata restituita unilateralmente da Israele ai palestinesi. Gerusalemme Est invece è stata praticamente annessa da Israele nel 1980 quando l’intera città è stata proclamata capitale unita ed eterna dello Stato israeliano. Quanto alla Cisgiordania, semmai verrà restituita, non sarà altro che una pelle di leopardo senza nessuna contiguità territoriale tra le varie insule palestinesi sopravvissute agli insediamenti ebraici.
Israele, dunque, nonostante le risoluzioni Onu ha sempre continuato imperterrito con la sua politica dei fatti compiuti e a riprova del tutto, il 28 dicembre la Municipalità di Gerusalemme avrebbe dovuto approvare la costruzione di altre 618 «unità abitative» nella parte orientale della città, quella che i palestinesi rivendicano come capitale del loro ipotetico Stato. La votazione però è stata sospesa in attesa del discorso che il segretario di Stato americano uscente John Kerry, avrebbe pronunciato lo stesso giorno. In tutti i casi il premier Netanyahu ha sempre fatto della colonizzazione la sua bandiera politica e difficilmente farà marcia indietro, soprattutto ora che alla Casa Bianca sta per insediarsi (il 20 gennaio) un uomo come Trump che ha già abbondantemente manifestato tutta la sua simpatia per lo Stato di Israele. Per di più, sempre Trump ha nominato ambasciatore in Israele David Friedman, che non solo è un acceso sostenitore del processo di colonizzazione ma ha sempre osteggiato la soluzione di pace basata sui due Stati, uno israeliano e uno palestinese, in una stessa terra (la Palestina storica).
Perché allora tanto clamore mediatico? Perché Netanyahu ha alzato i toni, ha quasi isolato il suo paese nel contesto internazionale richiamando in patria gli ambasciatori accreditati nei paesi che hanno votato la 2334, senza mai chiarire cosa lo irritasse tanto nella riedizione del divieto di colonizzare i Territori occupati, di cui fino al 23 dicembre francamente non si è mai preoccupato più di tanto? Dal punto di vista di Netanyahu, l’astensione americana al voto del 23 dicembre ha significato l’intenzione da parte di Obama di imporre last minute ad Israele le modalità con cui arrivare alla pace coi palestinesi. D’altronde è scritto nero su bianco nella risoluzione: gli insediamenti ebraici sono «un ostacolo alla realizzazione della soluzione dei due Stati». Quello che il premier israeliano non vuole più sentirsi ripetere è la riproposizione della creazione di uno Stato ebraico ed uno palestinese, contenuta nella peraltro defunta Dichiarazione di Oslo.
Nell’ottica del premier israeliano è come se Obama avesse voluto legare le mani a Trump prima ancora che entrasse in carica, resuscitando una road map che si sa essere gradita anche a Francia, Gran Bretagna, le maggiori potenze occidentali, l’Unione Europea e perfino il Vaticano, tutte realtà che il futuro presidente degli Stati Uniti non potrà ignorare nonostante le sue tentazioni isolazioniste. Inoltre, ben prima della data di insediamento di Trump, il 15 gennaio, non Netanyahu – che ha già declinato l’invito – ma un qualche rappresentante del suo governo dovrebbe presentarsi a Parigi per discutere la ripresa dei negoziati di pace tra israeliani e palestinesi in un summit internazionale convocato ad hoc dalla Francia.
Francia che ha votato la risoluzione 2334. In quella sede la pietra miliare del negoziato sarà ancora una volta la «formula due Stati», come un tormentone riproposto per mettere lui, Netanyahu, in imbarazzo. Del resto il suo ministro della Difesa, l’ultra-falco Avigdor Lieberman, ha già vaticinato che a Parigi non si svolgerò una Conferenza di pace ma «un processo a Israele» per colpire la sua sicurezza e la sua reputazione. E ha aggiunto: «Una versione moderna del processo Dreyfus, con un’unica differenza: sul banco degli imputati non ci sarà un solo ebreo, ma tutti gli ebrei e lo Stato di Israele». Ma, oggettivamente, c’è un’alternativa alla «formula due Stati»?
Netanyahu non ha mai detto quale sia a suo parere la soluzione di pace ideale coi palestinesi. Ha detto no ai due Stati e ha detto no al dialogo coi palestinesi. In pratica ha sempre mostrato di voler mano libera nei Territori, moltiplicando nel frattempo gli insediamenti. Non ha enunciato una sua filosofia o formula, ma ha «fatto fatti», per quanto possa esser brutta l’espressione. Mugugnando e lasciando correre, l’amministrazione Obama fino al 23 dicembre scorso ha comunque fermato col veto risoluzioni Onu contrarie ad Israele e soprattutto ha rinnovato non più tardi di pochi mesi fa un accordo di aiuti militari con lo stesso Israele della validità di dieci anni per un importo di 36,3 miliardi di euro. E anche questi sono fatti . E allora nella rabbia di Netanyahu sembra davvero di cogliere un’ansia che non è dettata solo dalla politica estera di Israele, ma soprattutto dalla politica interna. Nel suo governo, il più oltranzista che Israele abbia mai avuto, ha imbarcato personaggi come Lieberman, appunto, o Naftali Bennet, ministro dell’Economia, che potrebbero scavalcarlo a destra proponendo, come hanno sempre fatto baluginare, l’espulsione diretta o indiretta di tutti i palestinesi dai Territori. E proprio questi suoi ministri potrebbero trovare un’ottima sintonia con gli estremisti della destra repubblicana americana che sostengono Trump. Il quale Trump, il 28 dicembre, ben prima che John Kerry pronunciasse il suo discorso d’addio, difendendo ancora una volta una soluzione di pace a lungo termine basata sulla formula due Stati, via twitter ha commentato: «Non possiamo continuare a lasciare che Israele sia trattato con un tale sdegno e disprezzo. Una volta era un grande amico degli Stati Uniti, ora non più. L’inizio della fine è stato l’orribile accordo sul nucleare iraniano, e ora questo (intendendo la risoluzione 2334)! Sii forte, Israele, il 20 gennaio arriverà presto!». Netanyahu ovviamente si è affrettato a ringraziare.