Le spinte anti-globalizzazione, con un incombente protezionismo, i populismi, le guerre e il terrorismo islamico mettono in crisi l’ordine mondiale – Riusciranno le forze liberali a reinventare una stabilità per il pianeta?
Il mondo s’è capovolto e non si sa più come fare per rimetterlo dritto. Gli esperti, gli storici, gli specialisti, i politici sono al lavoro per trovare definizioni ed etichette rassicuranti – e temporanee – e da lì ripartire, ma per ora non c’è nulla di rasserenante. A levare le certezze all’ordine mondiale liberale sono stati due eventi rivoluzionari, in particolare: la Brexit nel Regno Unito e la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti. Ma attorno a questi grandi stravolgimenti – delle attese e delle prospettive – si sono formate alleanze, poli, linee di pensiero che stanno contagiando mondi diversi, soltanto apparentemente lontani.
Sul banco degli imputati c’è quel centro moderato e riformatore che ha costituito l’ossatura politica – con qualche variazione – del post comunismo: dalla caduta del muro di Berlino fino a oggi, la formula liberale, ispirata alla globalizzazione e alla circolazione libera di beni e persone, ha ispirato politiche e leadership in Occidente, predisponendo un effetto-calamita anche nei paesi circostanti. L’Unione europea, pur con i suoi tanti difetti e le sue contraddizioni, ha rappresentato il collante più potente di questa politica: per molti paesi che avevano gravitato nell’orbita dell’Unione Sovietica, l’opportunità occidentale, incarnata dall’Europa comunitaria, era imprescindibile, molti processi riformatori in nazioni guidate da leader autoritari sono nati proprio dall’ambizione di diventare europei.
Quello slancio è andato perdendosi, pur se ancora oggi le statistiche dicono che il processo è tutt’altro che fallito: secondo «Our World in Data», ogni giorno circa 130 mila persone escono dalla povertà estrema – nel 1990 il 37 per cento della popolazione mondiale viveva nell’indigenza totale, oggi questa percentuale è al 9,6. Ci sono altri dati che confermano il trend positivo del benessere mondiale e ce n’è uno in particolare che registra il successo della transizione democratica messa in atto all’inizio degli anni Novanta: il 56 per cento della popolazione mondiale ora vive in una democrazia, quando nel 1980 questo valeva soltanto per il 35 per cento (nel 1816, la percentuale era pari allo 0,87 per cento).
Politicamente però la formula liberale non è mai stata tanto debole. La vittoria di Trump negli Stati Uniti ha confermato non soltanto la nota «rabbia dell’uomo bianco», che sogna un ritorno al passato (circa anni Sessanta) e rifiuta i progressi sociali ed economici prodotti negli ultimi 40 anni, ma anche la volontà di isolarsi un pochino dal mondo, dalla concorrenza non sempre leale dei paesi in via di sviluppo, dai guai delle guerre e delle instabilità altrui. Quale strada ideologica e politica Trump voglia imboccare è difficile dirlo: alterna nomine di «finanzieri» di Wall Street che fanno imbestialire la sua base ad altre dalla forte impronta protezionista. Ma dovendo descrivere un’istantanea dell’Amministrazione che si sta costruendo, si potrebbe dire che tutto quel che di tradizionalmente liberale c’è nella retorica della Casa Bianca è stato alquanto annacquato.
Allo stesso modo nel Regno Unito, il premier Theresa May fatica a difendere una vocazione aperturista tipica degli inglesi (l’hanno inventato loro, il liberalismo) adattandola alle politiche per i «dimenticati», per quelli che sono rimasti ai margini dell’arricchimento globale. La May è assediata a destra dagli indipendentisti che chiedono un maggior ripiegamento su se stessi – e via gli immigrati! – e una rinuncia al dominio del libero mercato, e a sinistra da un Labour debolissimo che però cerca di intercettare il malcontento popolare per rinverdire una formula keynesiana di interventismo statale che nasce nel proprio milieu culturale. Il centro resta sguarnito, per ora lo occupa la May, ma la Brexit rischia di stravolgere tutto, perché il paese non soltanto è diviso su quale tipologia di rapporto instaurare con l’Ue a 27, ma dalla stessa ideologia ispiratrice: il fatto che dal team trumpiano arrivino minacce del tipo «prendiamoci il business inglese, visto che Londra è tanto in affanno» non aiuta la May, e nemmeno i liberali.
La rivista di geopolitica più istituzionale che c’è, «Foreign Affairs», la pubblicazione del Council on Foreign Relations americano, ha sintetizzato questo momento di crisi con una formula accattivante: Out of order? titola l’ultimo numero, con quel punto interrogativo che suona purtroppo un po’ superfluo e con un meccanico con gli attrezzi in tasca infilato dentro a un globo terrestre. Si può allora sistemare l’ordine internazionale? Gli articoli contenuti nel bimestrale fanno pensare che sì, qualche strada esiste, anche se non semplicissima, però bisognerebbe intanto mettersi d’accordo sulle ipotesi iniziali. L’ordine post Seconda guerra mondiale s’è fondato su una cooperazione di cui tutti potevano beneficiare rispetto a una competizione egoistica di ogni Stato.
Ora questa pietra fondante rischia di rotolare via, ma andrà lontano? E se sì, è sostituibile? Joseph Nye, già autore di un saggio sulla fine del secolo americano, scrive che potrebbe essere un errore evincere da questo nuovo corso trumpiano (e dalla Brexit) un trend inesorabile che ributta il mondo all’indietro. È vero – scrive Nye – che i trattati di libero scambio sono sospesi, in particolare quello con la riottosa Europa che pare anzi destinato al collasso, ma non si può dire che si è tornati al livello di protezionismo che c’era negli anni Trenta. La globalizzazione è qui per restare, insomma, sono i leader politici che devono imparare a gestirne anche gli effetti collaterali, rinunciando al «dominio» ma aiutandosi reciprocamente a trovare stabilità. Questa postilla riguarda in particolare gli Stati Uniti, che non devono abdicare al loro ruolo di superpotenza ma allo stesso tempo devono trovare il modo di garantire sicurezza e prosperità al resto del mondo senza essere percepiti come «i padroni del mondo».
È chiaro che la via è tortuosa, soprattutto perché qui non si parla di procedure o di manuali di geopolitica: si parla di valori. Se i leader occidentali restano portatori di una visione di libertà, di partecipazione e di apertura – quella che, con le lacrime agli occhi, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha ribadito all’indomani dell’attentato terroristico a Berlino – devono contrastare le forze che indeboliscono questa prospettiva, anche nel caso che, come sta accadendo ora, siano forze interne. La difficoltà sta proprio in questo: se le piazze, le urne e il dibattito mediatico spingono verso una disgregazione dei progetti multilaterali, verso un ritorno all’interesse nazionale (egoistico) e verso un riequilibrio del bipolarismo americano e russo a favore di Mosca (che questi valori non li condivide affatto), come si può invertire la tendenza? Anne Alpelbaum, autrice del libro imprescindibile Gulag e attenta analista degli equilibri geopolitici, dice che ormai il processo è avviato e che non è possibile tornare indietro.
Bisognerebbe cancellare il 2016, ma non si può; bisognerebbe poter dimostrare che se l’Ue va in pezzi e l’America si ritira dalla scena internazionale tutti siamo destinati a stare peggio, ma non si può – o almeno, quando si potrà sarà ormai troppo tardi. C’è chi propone di non piegarsi di fronte alla crisi, il liberalismo sa come reinventarsi (lo ha scritto il magazine liberale «Economist»); c’è chi dice che alla crisi della globalizzazione si risponde con più globalizzazione – lo dice l’ex premier inglese Tony Blair, che è molto convinto del fatto che il populismo di destra non si sconfigge con il populismo di sinistra, per il semplice fatto che quello di sinistra è molto più debole, verrebbe sconfitto.
Poi c’è chi invece dice che questo disordine è figlio della noia, e questa forse è la versione più rasserenante in circolazione. Il commentatore Thomas Well ha scritto che la crisi del liberalismo gli ricorda il meccanismo che Hyman Minsky indentificò per i mercati finanziari: la stabilità e la prosperità permettono di prendere rischi eccessivi che creano fragilità ed eventualmente collassi, e a quel punto la gestione del rischio diventa eccessiva e i mercati rallentano. «Il liberalismo – scrive Well – è stato un successo economico, morale e politico. Ma non ha raggiunto il risultato più facile: convincere le persone della sua efficacia morale e pratica messa a confronto con le alternative. Peggio: pare che chi sia cresciuto cogliendo i frutti della prosperità sia particolarmente propenso al rischio». Si votano i populismi per noia, per una voglia stanca di provare una cosa nuova: sembra una di quelle storie d’amore in cui lui fa i capricci, cerca avventure, s’allontana per un po’, e poi torna. Chiedendo perdono.