Il giardino ha a che fare con l’utopia, ed è per questo motivo che il titolo di questa rubrica in una prima ipotesi doveva suonare Eutopia, il bel-luogo. Il senso del Seme nel cassetto è un po’ questo: libro dopo libro si riconosce nell’atto di fare giardinaggio un passo in direzione di un mondo nuovo, alternativo a quello che ci circonda, un mondo non dominato dalle logiche alienanti del successo, del risultato, un mondo ancorato ai cicli della natura, che ad essa guarda e insieme ad essa costruisce nuovi orizzonti di senso.
E così Tornare al giardino di Marco Martella, storico dei giardini e fondatore a Parigi della rivista «Jardins», è in fondo un breve racconto sui motivi che ci spingono a entrare in punta di piedi in quello che spesso è percepito come un luogo incantato; un breve trattatello (forse la materia avrebbe potuto essere esposta più ampiamente, questa la critica rivolta al libretto) che ricorda che ai margini (avete presente il terzo paesaggio di Clément?), dove non guarda nessuno, in quelle zone ai limiti che sembrano dimenticate dallo sguardo benevolo di chi sorregge il mondo, proprio lì si rinnova la vita; proprio lì dovremmo recarci per riconoscere di nuovo il senso di questo nostro abitare la Terra.
Che cosa cambia quando varchiamo quella soglia? Perché l’entrata in quel luogo chiuso, separato dal resto da un recinto o una siepe (il latino hortus vuol dire proprio questo) ha in sé qualcosa di magico?
È la nostra percezione del tempo ad essere scossa. Mettere il naso in un giardino, ammirarne gli alberi, le foglie, stare a guardare come le stagioni passano e portano il loro contributo sulla vita in una metamorfosi continua che lascia al fondo le cose intatte, significa voltare anche solo per un attimo le spalle al tempo della contemporaneità, il tempo nevrotico e falsamente scintillante del post-industriale, quello tirannico, che non ammette eccezioni, il tempo monoteista già descritto dal regista Derek Jarman.
Osservando i cicli di nascita, morte, e di nuovo di rinascita, noi uomini e donne del ventunesimo secolo, compressi in format preconfezionati entro cui infiliamo con forza e talvolta violenza vite che vorrebbero dipanarsi da sé, un po’ smarriti entro metropoli troppo ampie, noi ritroviamo «il tempo della vita», come sottolinea Martella, «quello che il nostro corpo animale non ha dimenticato e che non ci spinge costantemente avanti, come fa il tempo meccanico che dirige le nostre esistenze».
Abbiamo perso la voce sottile e ipnotica degli dei: la Natura non è più abitata come nel passato da presenze altre, da un’alterità che ci spaventa e conforta al contempo. Oggi è il tempo pesante delle cose che pesano di materia bruta, senza redenzione, tirate verso il basso dall’incapacità di vedere oltre, altrove: il giardino ci fa allora scoprire quella flebile voce che abbiamo dimenticato, la «sirena del mondo» che già a inizio del Novecento il poeta Camillo Sbarbaro dava per perduta, un modo poetico di vivere la nostra esistenza, a contatto con la natura, plasmandola con essa.
E l’emergenza ecologica? «Invano tentiamo di reagire al naufragio ambientale utilizzando in modo più parsimonioso le risorse naturali» precisa Martella. «Invano, perché l’unica risposta possibile sarebbe tornare ad abitare poeticamente la Terra». E con umiltà. «Come suoi figli – continua Martella – affidando alle piante, all’acqua e agli animali la cura dell’anima mutilata». Quando state male, quindi, non temete: varcate un cancello, immergetevi in un giardino. Lì ci sono abbondanti risorse di guarigione.
Bibliografia
Marco Martella, Tornare al giardino, Ponte alle Grazie, 59 pagg, 9 euro.