Di Battista, il grillino di successo

Alle soglie dei quarant’anni Alessandro Di Battista di mestiere fa il piacione. Bella presenza, ciuffo curato e malandrino, barba di tre giorni, abiti di discreta fattura, eloquio suadente, tono perennemente colloquiale anche quando dà del mafioso a due malcapitati deputati, Civati e Cuperlo, lontani anni luce da Cosa Nostra e da quei comportamenti. Seguono imbarazzati chiarimenti e scuse, ma in forma privata per non rovinare l’effetto Torquemada. Quisquilie per quanti accorrono alle sue convocazioni sulla pubblica piazza, dove può sciorinare il meglio di un repertorio mezzo inventato, che non prevede contraddittorio, secondo gli aurei insegnamenti di Grillo.
Di Battista ha il merito di aver conferito un proprio stile alla marcata impudenza, che caratterizza gli esponenti del Movimento 5 Stelle allorché vengono interrogati. Lui è il campione della risposta a vanvera, mascherata da pensosa asserzione con una perentorietà dai toni ultimativi e il sottinteso che soltanto una canaglia in malafede può rivolgere una simile domanda. Nel febbraio 2015 il «New York Times» lo ha designato vincitore della speciale classifica sulle bugie più grandi del 2014. L’articolo si riferiva alla frase pronunciata da Di Battista durante una manifestazione al Circo Massimo. In quell’occasione descrivendo la situazione della Nigeria, definito «Paese tranquillo» dal ministro Beatrice Lorenzin, aveva replicato che «il 60% è in mano a Boko Haram, il resto è in mano a Ebola». Tesi smontata dal giornale statunitense grazie anche ai dati provenienti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Incidenti di percorso, al pari del ricorrente uso improprio del congiuntivo, epidemia assai affliggente il M5S, che niente tolgono al successo pubblico di Di Battista. L’ha certificato il tour elettorale in scooter, sulle orme di Che Guevara, compiuto lo scorso agosto per promuovere il No al referendum di dicembre, risoltosi con la disfatta di Renzi. «Costituzione coast to coast», l’ha ribattezzato il «Dibba», nomignolo molto amato dai fan: talmente infatuato della nostra Magna Charta, da ritenere che fosse stata votata in modo plebiscitario dal popolo italiano nelle elezioni del 1948; fu viceversa redatta e approvata dall’assemblea costituente nel 1947.
Come il fratello siamese Di Maio, anch’egli è nato in una famiglia della destra nostalgica. Dal Movimento sociale italiano ad Alleanza Nazionale, dalla Fiamma Tricolore al Fronte Nazionale papà Di Battista, imprenditore nel campo delle ceramiche, ha girato tutti i partiti e le conventicole riconducibili in qualche modo al suo vecchio mito di Mussolini. Sostiene di aver inoculato nel figlio l’avversione per il capitalismo liberale e per la globalizzazione; si vanta di aver inventato il «Vaffaday», poi copiato da Grillo, e di aver impedito il diffondersi del verbo pentastellato nel paesello d’origine, Civita Castellana.
Malgrado la laurea con master, della quale va giustamente fiero, Di Battista non sempre riesce a liberarsi dalle contraddizioni di un pensiero, che ambirebbe includere lo scibile umano in funzione antipartitica, soprattutto contro il Pd. Il banco di prova più impegnativo sono l’Europa e l’euro dai quali, a giorni alterni, vorrebbe uscire stando dentro o nei quali vorrebbe stare dentro uscendone. L’ultima iniziativa, lanciata nei giorni scorsi, ha suscitato un florilegio di battute e di sfottò a causa dello slogan: «Come sarebbe l’Italia, se lo Stato stamperebbe i soldi».
Viaggiatore indefesso in Sud America, ne ha tratto libri e reportage ogni volta offerti con il crisma delle verità mai raccontate. Gli hanno procurato la fama di esperto di questioni internazionali e garantito la futura nomina a ministro degli Esteri, qualora il Movimento riuscisse a formare un governo. L’una e l’altra nemmeno scalfite dal post pubblicato sul blog di Grillo, titolo «Isis che fare», nel quale la comprensione del «Dibba» per i poveracci presi di mira dai droni si spingeva fino a giustificare gli attentati terroristici dei kamikaze. Dinanzi alle immancabili polemiche, aveva chiarito che intendeva parlare di Hamas.
A differenza di altri colleghi, su tutti Di Maio, ha evitato d’impelagarsi nelle beghe interne del Movimento: pure il suo appoggio alla Raggi mai ha superato il minimo sindacale. Sempre allineato e coperto con Grillo – ha rivelato che spesso gli capita di piangere ascoltandone gl’ispirati interventi – ne ha condiviso anche l’ultima, sconcertante decisione: cancellare la votazione indetta sul web per la scelta del candidato sindaco a Genova. Anziché la mite professoressa, risultata prima, ma accusata di non aver sempre appoggiato le decisioni del vertice, è stato designato il tenore giunto secondo, però protetto dalla pretoriana di «BeppeMao».
Un suo recente cavallo di battaglia è stato l’interrogatorio di Buzzi, principale imputato assieme all’ex estremista nero Carminati nel processo per Mafia Capitale. Di Battista si è lanciato contro le omissioni dei tg e dei quotidiani collusi nel proteggere l’odiato Pd, senza accorgersi, forse distratto dall’ennesimo abbraccio a Grillo, che da sei giorni Buzzi rilasciava dichiarazioni, delle quali i mezzi d’informazione avevano fornito ampia testimonianza soprattutto in funzione anti Pd. E che proprio nel giorno da lui scelto per l’intervento – «Buzzi sta parlando… dove sono i giornalisti» – in pratica taceva.

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