La Provenza attraverso gli occhi di un cieco

«I nostri occhi sono chi ci accompagna». Un motto udito molte volte frequentando il mondo dei ciechi. Camminare per le strade affollate di Lione, uscire sul golfo di Marsiglia ballonzolando sulle onde del mistral, percorre i cammini cari a Cezanne a Aix en Provence, ballare sul ponte di Avignone cantando il classico «sur le pont d’Avignon on y danse tout en rond…». Esperienze vissute accompagnando nel ruolo di guida un cieco durante l’uscita annuale di UNITAS, l’associazione dei ciechi e ipovedenti ticinesi. 
C’era curiosità, ma anche timore nell’affrontare l’esperienza di guida. Domande e dubbi forse banali. In che modo spiegare come muoversi nelle camere degli alberghi. Come comportarsi in mezzo alla gente, oppure a tavola. Sarà d’obbligo descrivere durante le tante ore di viaggio i paesaggi che attraverseremo? E poi, la prospettiva di vivere fianco a fianco 24 ore su 24, conoscendo il proprio bisogno di ritagliarsi degli spazi di solitudine.
Insomma, tante domande e poche, pochissime, certezze al momento della partenza.
Già dopo poche ore di viaggio in torpedone una prima constatazione: guardare non significa sempre vedere. Il paesaggio scorre rapido davanti agli occhi. Le risaie piemontesi nella descrizione non sono solo vaste pianure oramai quasi brulle, ma disseminate qua e là si incontrano delle masserie, alcune diroccate. Grandi nuclei di edifici in cui in passato si viveva in comunità. «Ma sono ancora abitate?» mi chiede il compagno seduto di fianco. Allora si scruta, alla ricerca di un segno di vita. Qualcuno nell’aia, un filo di fumo che esce dal camino, un’automobile posteggiata, dei battenti alle finestre aperte. Si cercano i dettagli e ci si accorge che molte cose sarebbero sfuggite. Non le avremmo mai notate.
Poi l’impatto con la prima camera d’albergo. Un rapido giro assieme per conoscere dove sono situati i letti, la disposizione dei servizi, l’ubicazione degli armadi. Tanta invidia per la capacità di memorizzare in un baleno come muoversi. Lo confesso: ho provato alcune volte a spostarmi con la luce spenta. Ma ho subito desistito, mi sentivo ridicolo, ma soprattutto molto imbranato! Avere impressa nella mente l’immagine di uno spazio non basta, manca la dimensione delle misure, delle distanze. E allora eccoti lì impacciato a cozzare contro il muro o a cercare più volte quella dannata porta di accesso al bagno.
Ben presto il mercato non è solo l’insieme di bancarelle viste con gli occhi, ma è anche l’odore di pane fresco o di pelle delle borsette in vendita. In quei frangenti è il cieco che ti fa da guida, anticipando quanto non avevi ancora notato. La gita in battello è anche l’emozione e forse a tratti anche la paura per gli scossoni del mistral. Il piacere dei pasti cresce cercando i sapori delle pietanze. La bellezza e la forza delle cattedrali vanno percepite anche sfiorando le pareti con le dita. Una statua va apprezzata con la vista, ma anche con il tatto. Le mani scorrono avide nel cercare di vedere. Il carattere di un popolo può essere capito dai toni di voce della folla o dai rumori del traffico.
Raccontare a un cieco ciò che si vede con gli occhi permette (anzi forse obbliga) di identificare dettagli, particolari che altrimenti sfuggirebbero. Insomma: si impara a guardare!
Le guide saranno anche gli occhi di coloro che accompagnano, ma quegli occhi che non vedono più o che vedono poco, permettono a chi funge da guida di aprirsi sul mondo per scoprirlo in altre dimensioni, che in noi vedenti si stanno forse atrofizzando, se non lo sono già del tutto. Odorato, tatto, gusto, udito colmano il vuoto di occhi che vedono poco o sono spenti del tutto.
E alla fine del viaggio cosa rimane? Nei giorni successivi cresce la mancanza quel lieve e continuo sentirsi stringere il braccio da parte del cieco a cui ci si è offerti come guida. Si scopre la ricchezza degli scambi avuti in quel convivere 24 ore su 24, in un continuo gioco di dare e ricevere. 

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