La Turchia è una potenza ferita alla deriva. La risicata e probabilmente truccata vittoria di Recep Tayyip Erdoğan nel referendum sul presidenzialismo non risolve nessuno dei suoi problemi, anzi ne espone la grave crisi di identità. A cominciare da una leadership sempre più autoritaria e meno autorevole, che spacca il Paese a metà e lascia prevedere un incerto futuro per il suo vecchio/nuovo presidente sultano, in balìa dei suoi deliri di onnipotenza.
Il catalogo delle crisi che investono la nazione turca può essere riassunto in quattro punti.
Primo: Erdoğan sarà pure investito di poteri inauditi, superiori persino a quelli di molti dei monarchi ottomani cui ama richiamarsi, ma la base su cui queste prerogative poggiano è friabile. Sul piano sociale e culturale, il voto di Istanbul, Ankara e delle principali città della «Turchia bianca», ovvero della fascia costiera e dintorni, suona come l’approfondimento della linea di faglia fra questa parte della popolazione, tradizionalmente più aperta e laica, e l’Anatolia profonda, in cui il potere erdoganiano affonda le sue radici islamiste. Se a questo aggiungiamo il Sud-Est ribelle, largamente inaccessibile, dilaniato da decenni di rivolta e guerriglia curda, tuttora non domata, il quadro che ne emerge è di un Paese di oltre 70 milioni di abitanti sull’orlo della guerra civile. L’idea che questo mosaico possa essere tenuto insieme dalla volontà quasi inappellabile di un presidente dotato di poteri semidittatoriali è piuttosto azzardata. Anzi, l’accentramento di ogni decisione nella figura del leader dell’Akp rende ancora più palesi, e potenzialmente pericolose, le fratture interne alla società nazionale. In teoria, Erdoğan potrebbe restare a capo della Turchia fino al 2029. Molto probabilmente la sua parabola sarà più breve, e comunque condizionata dalle criticità strutturali della Nazione.
Secondo: è di fatto chiusa la prospettiva dell’integrazione della Turchia nell’Unione Europea. Si è trattato di una interminabile commedia, in cui tutti gli attori erano più o meno consapevoli di dover recitare una parte, senza che nessuno credesse fino in fondo in ciò che proclamava. Gli europei, specie tedeschi e francesi, non hanno mai davvero considerato plausibile l’ammissione di Ankara nella famiglia comunitaria. Per ragioni di incompatibilità cultural-religiosa, certo. Si ricorda ancora il veto di un cancelliere austriaco, il quale spiegava ai colleghi comunitari che il suo Paese non avrebbe mai potuto convivere con Ankara: «Non possiamo dimenticare l’assedio di Vienna». Più concretamente, l’idea di avere nel Parlamento europeo la delegazione turca come maggioritaria, in forza della mera demografia, era evidentemente intollerabile – specialmente per la Germania. Aggiungiamo a questo la svolta autoritaria, sancita dal referendum, e ne concludiamo che la farsa è chiusa.
D’altra parte, lo stesso Erdoğan non ha più bisogno di recitare una commedia che pure gli è stata assai utile. Infatti, ricordando alla sua opinione pubblica e ai suoi avversari nelle Forze armate che in un paese dell’Unione Europea il posto dei militari è la caserma – o eventualmente il fronte – e non la scena politica, il presidente sultano ha potuto legittimare la sua strategia di emarginazione politica dell’esercito. Non sappiamo ancora quando, ma è possibile che Erdoğan decida di sancire la rottura definitiva delle pseudo-trattative con Bruxelles tramite un referendum nazionale sul ripudio dell’Ue. Voto dall’esito piuttosto scontato.
Terzo: la Nato ha perso un alfiere importante e militarmente credibile sul suo fronte orientale. Nei decenni della Guerra fredda Ankara è stata un fondamentale avamposto antisovietico, deputato a sbarrare la strada degli Stretti e del Mediterraneo all’espansionismo di Mosca. Oggi Erdoğan è stato spinto a scendere a patti con Putin, in un’ambigua alleanza sorretta da grandiosi progetti energetici. In più, le purghe che hanno colpito i militari dopo il fallito golpe della scorsa estate hanno infiacchito e demoralizzato le Forze armate. Quello che era considerato il secondo esercito della Nato è oggi uno strumento di dubbia efficienza e lealtà, che gli stessi americani non sanno bene se e come considerare utile alle loro priorità geostrategiche.
Resta poi, fra Turchia e Usa, l’irrisolta diatriba sul rimpatrio di Fethullah Gülen, nemesi di Erdoğan, rifugiato in Pennsylvania, che molto difficilmente la giustizia Usa vorrà estradare in patria.
Quarto: Erdoğan ha sempre concepito la sua geopolitica in termini grandiosi, neo-ottomani. La guerra di Siria, avviata nel 2011, avrebbe dovuto sancire il ritorno della potenza turca nel mondo arabo, su cui la Turchia ottomana dovette mollare la presa alla fine della Prima guerra mondiale. Risultato: fallimento totale. Il regime di Bashar al-Assad è sempre al suo posto, si profila anzi come baldanzoso vincitore, mentre i ribelli sostenuti da Ankara sono in ripiegamento quasi ovunque. Inoltre, le forze curde, per quanto fra loro piuttosto divise, stanno approfittando del vuoto di potere tra ciò che resta della Siria e dell’Iraq per conquistare spazi e insediamenti. Almeno sulla carta, il miraggio di un vasto Kurdistan, tra Anatolia e Iraq settentrionale, è meno improbabile di qualche anno fa. In ogni caso, le ambizioni neo-ottomane della Turchia paiono stroncate.
Erdoğan ha dunque vinto (?) il referendum che ne sancisce il rango di uomo solo al comando. Ma il suo Paese ha perso.