Dimenticatevi i giardini le cui bellezze cromatiche ricordino quadri di pittori fiamminghi, scordate le meraviglie degli accostamenti, da quelli più vieti a quelli più azzardati, accantonate le peripezie vegetali che creano panorami da mozzare il fiato, fate piazza pulita di tutto ciò che cerchiamo normalmente in un hortus conclusus separato dalle cose trite e quotidiane con le quali dobbiamo ahinoi fare i conti sempre. Il bello di Giardini in tempo di guerra di Teodor Cerić è che i luoghi nei quali porta il lettore lungo il suo viaggio in fuga dalla guerra (dietro il poeta bosniaco in realtà si nasconde Marco Martella, il direttore della rivista parigina «Jardins») sono in fondo posti normali.
«Non c’è niente di straordinario da scoprire, è semplice, a volte scontato o brutto» ed è questo il bello
Queste pagine ci calano in un mare calmo, senza fondali tropicali, senza barriere coralline o sirene che annunciano incanti: qui non c’è niente di straordinario da scoprire, tutto è semplice, a volte persino scontato o brutto. Prendiamo per esempio il giardino brullo che appartenne a Samuel Beckett, a Ussy-sur-Marne, in quell’angolo di Francia che Balzac aveva definito «deserto di cereali» e che dovette ricordare al drammaturgo la sua Irlanda e i campi di patate; un pezzo di terra, quello appartenente al fondatore del teatro dell’assurdo, «poco attraente», come si legge nel libro, e capace con straordinario piglio riassuntivo di farsi ipostasi di tutto quello che «un giardiniere degno di questo nome disprezza».
Eppure in quel luogo, che lui soleva chiamare grounds anziché garden, Beckett lavorava per ore. Guardava l’erba crescere fra i sassi, aggrapparsi con la disperazione della vita alla distruzione, agli elementi secchi e ctoni del fenomenologico: la stessa acuta, umanissima disperazione con cui i suoi personaggi si aggrappavano all’esistenza, alla mancanza di senso, al vuoto, attendendo Godot e mescolando parole, singhiozzi e silenzi.
Parlare di giardino è una forzatura. Dovremmo parlare sempre di giardini, perché ognuno di essi ha una propria e differente storia, ed è questo che ci suggerisce l’autore, portandoci per esempio nel giardino dove Derek Jarman passò i suoi ultimi giorni, prima che l’Aids lo stroncasse. A Prospect Cottage, nel Kent, Teodor Cerić non trova un Eden, piuttosto un cimitero: lì il regista dialogava con i suoi morti, i suoi amici anch’essi uccisi dal virus, e lì ogni sasso, ogni ramo era un altare dedicato a una vita strozzata.
E la borragine? «I borrage bring courage» (verso di Derek Jarman, che significa, tradotto, «Io, borragine, porto coraggio»), perché, nonostante il gelo mattutino, lei si rialza, continua ad esistere. In quel giardino il regista, grande appassionato botanico, attese la morte, cercando, nel vivo del divenire che corrompe ogni cosa, di creare ancora più vita nella vita. Anche se solo per un attimo. In questo viaggio l’ombra è più interessante della luce: e così quella densa, fitta della notte, quella che ricopre Monte Caprino, un luogo di incontri ambigui a Roma, diventa lo spazio giusto per sentirsi a casa. Molto più che di giorno, quando i raggi del sole feriscono il luogo e ce lo restituiscono troppo netto, troppo prosaico, senza più nascondigli o misteri da svelare.
Ma che cosa promette, quindi, un giardino? Martella ce lo rivela alla fine: «Tornare alla terra, fare di nuovo corpo con essa, parlare finalmente la sua lingua, anzi no, essere la sua lingua». Fra le stagioni, le passate, le presenti, e le future, dovremmo sempre ricordarci della borragine, e cercare di creare nuova vita dalla vita: fino a quando ce ne sarà.
Bibliografia
Teodor Cerić, Giardini in tempo di guerra, Ponte alle grazie, 2015, 124 pagg, 12 euro.