Riccardo il Moro a Lugano

Gergiev con San Pietroburgo e Haitink con la Mozart, Dutoit con la Royal e Pappano con Santa Cecilia. Lugano Musica sta abituando il pubblico del LAC alle grandi bacchette internazionali e alle loro corazzate sinfoniche; ma c’è un nome che luccica più di tutti gli altri: Riccardo Muti, che il 4 giugno sbarcherà sulla sponda ticinese del Ceresio per dirigere la sua orchestra Cherubini nella quinta sinfonia di Ciajkovskij e nella Tragica di Schubert.

Mito vivente del podio, a 75 anni continua ad essere richiesto in tutto il mondo; nel 2010 è diventato direttore a Chicago e per dargli il benvenuto hanno riprodotto una sua gigantografia su un grattacielo. Ci sono le sue foto con papi, governanti, re e regine, ma quando lo invitarono per un concerto a Buckingham Palace ponendogli troppi vincoli, rifiutò piccato domandando se volessero un direttore o in saltimbanco. Nato a Napoli «perché papà volle così: la famiglia è di Molfetta, ma papà sosteneva che se qualcuno fosse diventato famoso dire di essere nato a Molfetta non sarebbe stato elegante» sorride. Fu però proprio il padre ad avviarlo alla musica: «Era medico e girava col calesse; a ognuno dei cinque fratelli fece studiare uno strumento, per cultura e elevazione spirituale; a me toccò il violino, a sette anni; me lo regalò il 6 dicembre, io avrei preferito un giocattolo, ma improvvisamente iniziai a leggere le note: mi sembrava di assistere a un miracolo, entrare un mondo nuovo. A otto suonai un concerto di Vivaldi in pubblico, ma non pensavo di fare il musicista; e papà sperava diventassi avvocato».
La svolta a 15 anni, grazie a Nino Rota, l’autore delle colonne sonore per Fellini: «Avevo iniziato a studiare seriamente pianoforte e feci l’esame da privatista a Bari. Alle due di pomeriggio si affacciò un ometto non alto ma con due occhi brillanti come stelle, sul volto stampata una serenità e un’innocenza incredibili. Mi portò nella sua stanza, mi fece suonare, alla fine mi disse: la commissione ti ha dato dieci e lode non per come hai suonato, ma per come potrai suonare. Era Rota. Io pensavo di studiare privatamente, lui insisteva perché frequentassi il conservatorio e dovette convincere mio padre; fu convocato a un consiglio di famiglia con tutti i membri, fratelli compresi: sembrava un film di Tornatore. Alla fine convinse tutti e fu a Bari che iniziai a vedere e ascoltare quello che è un’orchestra».
Rota fu presente al matrimonio di Riccardo con Cristina «che conobbi al Conservatorio di Milano; stavo studiando in sala Puccini, lei fece irruzione in modo chiassoso; le feci segno di andarsene, ma qualcosa in lei mi attirava e le chiesi chi fosse: mi confessò che mi voleva conoscere perché incuriosita dal mio soprannome, il Moro per via dei capelli neri e la carnagione scura». Dunque il giorno del matrimonio a Ravenna, 1969, ci fu una sfida pianistica tra Rota e Richter, uno dei massimi virtuosi del ’900: «Una meraviglia, ma a un certo punto io dissi che volevamo andare, era la nostra prima notte di nozze… Allora Nino ci suonò “Ritorna vincitor” dall’Aida». 
Rota segnò ancora le vicende familiari: «Mia figlia ha sposato David Fray, un pianista che conoscemmo quando lo diressi proprio in Rota». La figlia si chiama Chiara, i figli Francesco e Domenico: «Il riferimento ad Assisi non è casuale. Sono radicato nel terreno della nostra tradizione religiosa, per me Natale non sarà mai la festa di luci e Babbi ma la nascita di Gesù; facevo il presepe da bambino e l’ho fatto da padre, inserendo ogni anno una statuina nuova. Dopo gli attentati di Parigi ho suonato con la Cherubini nella Basilica superiore di Assisi: fu un’emozione incredibile suonare in quel luogo, circondato dagli affreschi di Giotto e sapendo che sotto, nella cripta, c’era la tomba di Francesco». Fu un concerto blindato, con l’esercito e i metal detector all’ingresso: «Vissi quella situazione come una grande contraddizione, san Francesco avrebbe voluto l’esatto opposto, ma è il tributo che dobbiamo pagare a quella che acutamente papa Francesco ha definito la terza guerra mondiale a pezzi. Però stiamo attenti: vedo tanti chiedere la pace ma in modo egoistico, limitandola a uno star bene nel proprio piccolo senza preoccupazioni; invece bisogna pensare alla società universale, magari ricordando quello che fecero certe figure del passato come san Francesco, che andò in Egitto e dialogò coi musulmani, o a come fa il papa».
E come ha fatto lui stesso: «Nel 2004 andai col Ravenna Festival in Siria; tenni una lezione agli studenti del conservatorio di Damasco: conoscevano perfettamente la musica occidentale, che divenne il nostro linguaggio comune; la musica è scuola di dialogo e in generale una società con più cultura è sempre una società meno violenta». Muti ne ha dato saggio creando «Le vie dell’amicizia», concerti in luoghi simbolo come Gerusalemme, Ground Zero, Erevan, Sarajevo: «La musica e in generale la cultura non sono un lusso, ma realmente un cibo per l’anima; chi non vuol sostenere la cultura combatte anche la nostra storia e quindi la nostra identità: conoscere il passato è indispensabile per comprendere il presente e pensare al futuro». Proprio per questo nel 2004 ha fondato l’orchestra Cherubini, formata da talenti under 30 personalmente selezionati dal maestro: «Un mio modo per ringraziare l’Italia di tutto quanto ho ricevuto e per trasmetterlo ai giovani; un conto è saper suonare uno strumento, altro è essere un buon orchestrale: ci vuole un bagaglio di conoscenze ed esperienze specifico, in cui rientra anche un senso etico e morale innanzitutto verso la musica».
Prima di insegnarlo l’ha dovuto imparare lui stesso: «Studiando direzione con Votto, che era assistente di Toscanini alla Scala; per loro era necessaria la fedeltà alla partitura, il rispetto all’idea dell’autore; troppo spesso si tagliano parti o si eseguono seguendo gusti personali o le strampalate idee di registi che magari poco o nulla capiscono di musica. Con questi giovani voglio innanzitutto andare al cuore degli autori che suoniamo».

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