Oltre lo specchio

by Claudia

Viaggiatori d’Occidente - Come evitare delusioni durante esplorazioni esotiche

Quando è stato il tempo migliore per viaggiare in Africa? Nella bussola di questa settimana per esempio torniamo agli anni tra le due guerre mondiali. Ma se avessimo una macchina del tempo, con un solo biglietto di andata e ritorno, cosa sceglieremmo? Viaggeremmo nel passato o nel futuro? O sarebbe meglio lasciarla spenta e vivere invece il nostro tempo?
Il grande antropologo francese Claude Lévi-Strauss credeva che il bilancio sarebbe in ogni caso negativo. Viaggiando negli altri continenti spesso troviamo solo i peggiori aspetti dell’Occidente – inquinamento ambientale, sfruttamento del lavoro, manipolazione delle coscienze – senza tutti quei correttivi introdotti da due secoli di liberalismo e democrazia. La fuga verso altri mondi promessa dal viaggio ci mostrerebbe soltanto il lato più oscuro della nostra esistenza. E se i viaggiatori del passato avevano dinanzi ai loro occhi lo spettacolo meraviglioso di un mondo autentico e intatto – continua Lévi-Strauss – non possedevano tuttavia le categorie per comprenderlo e apprezzarlo; spesso anzi la diversità di culture e religioni destava in loro fastidio e repulsione. 
Noi invece sentiamo di possedere tali strumenti intellettuali, ma abbiamo l’impressione che il progresso e la globalizzazione ci abbiano sottratto l’oggetto della nostra ammirazione.
Ma è poi davvero così? Certo sappiamo bene che anche il cosiddetto «turismo culturale» offre quasi sempre delle superficiali presentazioni della cultura di una popolazione: per esempio i Pigmei della Repubblica democratica del Congo mettono in scena sempre lo stesso spettacolo per i visitatori, a orari fissati. Considerati i limiti di tempo e di conoscenze dei partecipanti è forse inevitabile che sia così e come prima introduzione alla diversità può anche avere un suo senso. Ma un altro antropologo, Marco Aime, ha mostrato come anche i viaggiatori responsabili, sostenibili, etici, desiderosi di un’esperienza autentica e disposti anche a fare sacrifici per questo, raramente riescono a evitare malintesi e stereotipi, ad andare al di là di un gioco di specchi nell’incontro con l’altro. 
Le ragioni di questo fallimento sono diverse. Per cominciare il viaggio è diventato molto, troppo veloce. I viaggiatori del passato avevano giorni e settimane di lento trasferimento per abituarsi alle novità. Oggi invece in poche ore siamo trasportati dall’altra parte del globo e quando le porte dell’aeroporto di destinazione (così simile a quello dal quale siamo partiti!) si aprono davanti a noi, schiudendoci altri climi, altri cibi e altre culture, sperimentiamo un autentico shock, una sorta di jet lag culturale prima ancora che fisico.
C’è poi il peso delle aspettative. Spesso quel che già conosciamo ci acceca invece di aiutarci a conoscere altre realtà. Dopo tutto scegliamo di andare in un determinato posto perché crediamo di sapere com’è: lo abbiamo visto alla televisione, in rete, sulle riviste specializzate, nei cataloghi turistici o attraverso i racconti di chi c’è già stato. Ma per questa via il viaggio rischia di diventare una verifica piuttosto che una scoperta. Come spiega perfettamente un proverbio africano: «L’occhio dello straniero vede solo ciò che già conosce». E saggiamente lo scrittore francese André Gide rispondeva, a chi gli chiedeva cosa s’immaginava di trovare in Africa: «Aspetto di essere lì per saperlo».
Spesso lo sguardo dell’occidentale è poi guidato dal rimpianto per quel che ha perduto nel cammino verso la modernità. Figlio di una società ricca quanto materialista e disincantata, cerca negli altri popoli la bellezza e la ricchezza della tradizione, un rapporto profondo con la natura, legami familiari stabili. 
Infine quando siamo alla ricerca di un’esperienza autentica, di un vero incontro, spesso rifiutiamo la natura inevitabilmente commerciale del turismo. Nel breve tempo del nostro soggiorno vorremmo stabilire rapporti disinteressati, amichevoli, sinceri. Un desiderio impossibile in Paesi dove la spesa quotidiana di un visitatore spesso supera lo stipendio mensile di un capofamiglia e dove pertanto ogni turista, agli occhi di un locale, è prima di tutto un portafogli ambulante ben fornito. 
La soluzione? Potrebbe essere trasformare il monologo in un dialogo, ascoltare invece di parlare, sforzarsi di comprendere il punto di vista altrui invece di imporre il proprio. Insomma ricordarsi che gli altri sono a casa loro e che, come scriveva il regista australiano Dennis O’Rourke, anche quando viaggiamo in terre lontane gli unici stranieri siamo noi: «Niente è così strano, in terra straniera, come lo straniero che viene a visitarla». 
In questa prospettiva Canon, Picfair (un sito di vendita immagini online) e la rivista «New African» hanno proposto il concorso #CelebrateAfrica, invitando gli africani stessi a inviare immagini della loro vita quotidiana per sfidare gli stereotipi correnti. In risposta gli organizzatori hanno ricevuto quasi tremila fotografie (le vedete qui: http://bit.ly/2rizVlw). Il vincitore è stato Brian Oteno, un giornalista freelance che ha raccontato la vita quotidiana a Kibera, la popolosa baraccoli alle porte della capitale del Kenia, Nairobi. Qui di turisti se ne vedono ben pochi eppure anche in luoghi come Kibera (ne parleremo presto in un reportage su queste pagine) potremmo scoprire la comune umanità, dietro alle maschere.

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