Dindo, carabiniere violoncellista

È uno dei miglior violoncellisti al mondo; è stato il pupillo del più grande cellista dell’ultimo secolo, Rostropovich; e nel suo girovagare tra i principali teatri del mondo ha scelto Lugano come sua base. Lui torinese orgoglioso delle sue radici (anche juventine) ma allo stesso tempo innamorato del Ticino. «Ci venivo da giovane per studiare, non in Conservatorio ma a Ponte Capriasca, è stato un piacere tornarci non saltuariamente ma prendendo casa con mia moglie e mio figlio».
Enrico Dindo è uno dei grandi nomi che il Conservatorio luganese annovera tra i suoi docenti, titolare di una masterclass ambita da giovani talenti di tutta Europa. L’attività solistica e di direttore è frenetica: ha inciso il Doppio Concerto di Brahms con Chailly e la Gewandhaus di Lipsia, i due Concerti di Haydn con i Solisti di Pavia, formazione che lui stesso ha formato, ora guida l’orchestra di Zagabria («stiamo preparando la nona sinfonia di Beethoven»), eppure non rinuncia a insegnare. «Perché spiegare a qualcuno aiuta innanzitutto me a chiarirmi le idee, a capire in modo più lucido quello che magari mi viene da fare per istinto».
Istinto esercitato già a sei, sette anni «perché in casa mia, così volevano i miei genitori, tutti dovevano suonare uno strumento; il primo violoncello dell’orchestra Rai di Torino era un amico di famiglia, studiò le mie mani e disse ai miei che gli sembravano fatte per il violoncello; così iniziai». La scintilla scoccò suonando assieme alla sorella, violinista: «Quando fui in grado di eseguire passaggi non solo elementari mia sorella mi coinvolse in un quartetto; lei è più grande e suonava già da vari anni, così gli altri due archi; io facendo le poche note dell’accompagnamento del basso entravo in una dimensione molto più grande e bella di quanto non mi consentissero le mie capacità d’allora, mi sentivo catapultato senza passi intermedi in un mondo tutto nuovo: suonavo poche note, ma allo stesso tempo stavo suonando un brano enorme, complesso, bellissimo, un Quartetto di Haydn o uno di Mozart. E da allora non ho più smesso di fare musica da camera». Lo fa tuttora, anche in Conservatorio, suonando assieme a Massimo Quarta, virtuoso del violino di fama internazionale, alla prima viola scaligera Danilo Rossi e ad alcuni studenti; «e anche il mio essere direttore non è dittatoriale, ma cerco una dimensione cameristica, un dialogo con i professori per arrivare a una visione comune e condivisa».
A 22 anni il grande salto: «Partecipai al concorso di primo violoncello al teatro alla Scala. Passai l’estate in un monolocale a Milano: un caldo pazzesco, a quei tempi il condizionatore era un lusso». Arrivò il giorno del concorso «e su suggerimento di mio padre mi presentai con la divisa da carabiniere – avevo appena fatto il servizio militare ed ero stato scelto in quel corpo – perché secondo lui l’uniforme dà importanza e incute rispetto. Quando mi ritrovai dentro il più importante teatro d’opera al mondo, in quella sala tutta stucchi, ori e velluti, sul palco dove avevano cantato la Callas e Pavarotti, vedendo gli altri candidati, trovandomi davanti Riccardo Muti e guardandomi vestito da carabiniere, mi vergognai tantissimo!». Eppure Muti, al tempo direttore musicale della Scala, scelse proprio lui, «Dieci anni come primo violoncello, talvolta con ruoli solistici, ma iniziavo a scalpitare, avrei voluto qualcosa di più».
L’occasione avvenne dieci anni dopo «quando andai a Parigi da un liutaio e vidi nel suo studio la locandina del concorso Rostropovich: mi licenziai dalla Scala e mi preparai per vincerlo. Ora mi rendo conto dell’incoscienza di allora: mi ero appena sposato e avevo appena rinunciato a uno stipendio sicuro…». La sfrontatezza giovanile fu anche il voler portare in finale il primo Concerto di Shostakovich, scritto e dedicato proprio a Rostropovich, ovviamente a capo della giuria: «Ma mi venne bene, alla fine il grande Slava mi trovò nei corridoi, mi corse incontro e abbracciandomi urlò “viva l’Italia!”; non sapeva ancora il mio nome». Lo imparò in fretta, visto che Dindo ne divenne il pupillo. «Studiavamo insieme ma soprattutto lui mi trasmetteva non solo le sue idee ma la sua storia; mi raccontò di quando lesse su un giornale che Shostakovich aveva composto un concerto per violoncello; lui si era arrabbiato perché erano anni che gliene chiedeva uno; andò a casa sua e Shostakovich gli spiegò che temeva di non aver fatto un’opera all’altezza dell’interprete e gli fece vedere il manoscritto. Rostropovich si immerse nella lettura, lo suonò col compositore a fare al pianoforte la parte dell’orchestra; tornò a casa che era quasi l’alba, dopo tante note, risate e tanti brindisi con la vodka».
Proprio Rostropovich gli ha suggerito un concetto tutto suo di verità musicale: «Sono cresciuto con le sue interpretazioni: le Suite di Bach, i due concerti di Shostakovich, ma ad esempio quando consultai l’edizione critica del Concerto di Dvorak scoprii che certi passaggi che lui suonava forte erano indicati in piano dall’autore, e in effetti aveva una sua logica a un suo fascino. Slava li suonava dunque in modo sbagliato, ma il risultato era così bello!»

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