«Eccoli, arrivano!» gridano con le mani al cielo e i piedi nel fango di stanotte i ragazzini scalzi. A San Carlos del Rio Negro, provincia profonda del Venezuela, quasi Colombia, l’atterraggio d’un aeroplano da turismo non si perde per nulla al mondo. Ora lo sento anch’io, il ronzio del mio filo d’Arianna. È lui che mi ripescherà da questo mondo anfibio, impastato con gl’ingredienti della vita vera.
Ripercorro nella memoria il grande viaggio compiuto sin qui. Da Caracas, sul Mar Caraibico, un balzo aereo di un’ora e mezza mi aveva condotto a Puerto Ayacucho, capoluogo della regione amazzonica. Selva, selva dappertutto, fino all’orizzonte. Nicolàs, uno dei due piloti che sbrigano i piccoli traffici aerei di questa enorme regione, sbraita come un matto sopra lo strepitio del monomotore per spiegarmi il suo paese, preda d’una crisi che ruba persino il pane di bocca; roba da non credere, qui, con le riserve petrolifere maggiori del pianeta.
Lo stesso Cessna m’aveva poi scodellato a La Esmeralda, un avamposto di civiltà macilenta in mezzo alla selva. Qui l’Orinoco si biforca in un canale naturale, il Brazo Casiquiare. La sua importanza geografica è enorme. Sfociando nel Rio Negro, il Casiquiare unisce i due bacini fluviali del Rio delle Amazzoni e dell’Orinoco, schiudendo un accesso navigabile dal Mar dei Caraibi a tutta l’Amazzonia. Per questo gli esploratori l’hanno cercato per secoli, fino a quando il geografo tedesco Alexander von Humboldt l’ha trovato e ne ha tracciato la mappa, pubblicata nel 1812.
Dopo l’aeroplanino è venuto il bongo. Atterrati sul pratone della pista di La Esmeralda, con Mario, mio mentore venezuelano, ci sottoponiamo alla perquisizione militare di prassi, che non si importino armi, alcolici… cose così. Ma noi portiamo soltanto cibo e generi di prima necessità per la navigazione sul bongo, appunto, un guscio di latta coperto, largo un paio di metri e lungo una quindicina, la nostra casa per i prossimi dieci giorni.
In navigazione si fa vita selvatica: si appende un’amaca per dormire, si cucina su un fornellino, ci si lava al tramonto nel fiume, si va in bagno fra le frasche, s’impreca contro i puri-puri, moscerini insaziabili.
Infine attracchiamo in fondo a un caño, un fiumiciattolo, profondo, stretto e frondoso, dove il bongo manovra a fatica. Siamo giunti dagli Yanomami. È un’etnia dispersa in riserve naturali da qui al Brasile, su un’area grande un terzo dell’Italia, in piccoli villaggi, detti shabono, lungo i fiumi o sulle montagne della Sierra de Parima.
Mai ho visitato comunità indigene amazzoniche così conservative. Lo shabono è di forma ellittica, chiuso da alte pareti di palma inclinate sul piazzale interno, aperto sullo spettacolo della vita ancestrale che gli gira intorno, dove penzolano amache e fumano fuochi di legna, e giocano bambini, e mamme allattano, e donne grattugiano manioca, e sonnecchiano gli uomini tornati dalla caccia coperti di fango. Quella è la loro casa, antica come il mondo; sembra d’esser piombati nel set di un film di conquistador secenteschi, che mancano solo gli spagnoli con gli elmi e gli archibugi a sparare all’impazzata sugli indigeni nudi.
Nudi, come nella tradizione dei popoli della selva tropicale, alcuni sono ancora. Vestiti solo di bracciali e collanine e orecchini di semi e di piume, roba di foresta, e disegni di fantasie ancestrali tracciati sulla pelle col pigmento rosso del frutto dell’annatto, insieme agli stecchi che s’infilano nel naso e nelle labbra per vanità.
Da qualche tempo, qui, qualcuno indossa perizomi, magliette o pantaloncini logori e fuori taglia, frutto di baratti con i rari visitatori. Scambiano oggetti locali d’uso quotidiano, fabbricati nelle lunghe giornate oziose da cui si lasciano cullare gli uomini. L’articolo che va per la maggiore è la faretra: un lavoretto piccolo e ben fatto, perfetto per lo scaffale del salotto.
Gli Yanomami, oltre che cacciatori, sono anche coltivatori, di yucca, mais e canna da zucchero. E pescatori. Per questo, tra i doni che gli abbiamo recato, c’era materiale per la pesca: ami, lenze… I doni sono richiesti per poter far loro visita. E se li guadagnano. Si preparano a ricevere gli ospiti e sono giorni in cui c’è fermento, perché i turisti, pochi, vengono solo un paio di volte l’anno. Se no arrivano solo guerrieri di altre tribù, ma per rapire qualche donna del villaggio, che a volte ci scappa pure il morto. Beghe da indigeni, che non approdano mai nei tribunali venezuelani. Gli abbiamo portato anche tabacco da masticare e sale. Loro ci hanno accolto in casa, alcuni sopportando, altri approfittando. Tutti sempre sotto gli occhi di tutti.
Nel pomeriggio gli sciamani si riuniscono per ore a sniffare polvere di speciali semi e cenere e a farneticare, per l’effetto inebriante. Un giorno un bebè ha avuto una crisi respiratoria ed è stato il caos. Gli uomini magici hanno cominciato a pronunciare formule arcane e a soffiargli in faccia, con tutto il villaggio che assisteva. Il bimbo s’è ripreso, ma tutta notte uno dei vecchi stregoni è rimasto con lui, cullandolo con le sue ninne nanne incantate. La mia amaca penzolava proprio accanto a loro.
Con la notte, il villaggio chiude i bassi accessi con foglie di palma e dentro, tutt’intorno, ardono fuochi e braci, e piangono bimbi, e poi il silenzio. Solo lo sciamano coi suoi canti flebili, quella sera.
«Siamo fuori dal mondo» penso tra quelle nenie ipnotiche. Ma poi, in mezzo alla vita allo stato puro, al pianeta in fasce, a gente partorita nel Neolitico, ancora memore della creazione…sarebbe questo, l’essere fuori dal mondo?