Contro la morte

Per il mitteleuropeo Elias Canetti, premio Nobel per la letteratura 1981, la morte fu un’ossessione costante. Era il tema della sua più intima e preziosa opera, che però non riuscì mai a scrivere, pur riempiendo nel corso degli anni migliaia di pagine con riflessioni, pensieri, aforismi, invettive e battute surreali, di cui una piccola parte viene ora presentata al lettore italiano da Adelphi ne Il libro contro la morte a cura di Ada Vigliani.
Elias aveva perso il padre, ricco commerciante bulgaro di origini sefar-dite, a sette anni nel 1912, e fin da allora l’angoscia di quel vuoto si trasformò in ribellione, mentre dentro di lui sopravvivevano i suoi morti. Della madre carissima, scomparsa nel 1937, ebbe a scrivere: «Io le presto il mio respiro. Lei camminerà con le mie gambe». Il suo sogno era rappresentare la morte come se non ci fosse, e in ogni caso opporsi al terribile paradosso per cui tutto ciò che si è accumulato, quell’«incredibile deposito di ricordi e abitudini, di domande procrastinate, di risposte tremebonde» è destinato a scomparire quando la vita si spegne. Tutto per niente, dunque? L’interrogativo sprigiona una resistenza accanita che ben si allinea ai versi del grande poeta inglese Dylan Thomas: «Non andartene docile in quella buona notte, / (…) Infuria, infuria contro il morire della luce».
Questo moderno Don Chisciotte sbalzato da una provincia marginale dell’Impero absburgico (era nato a Rustschuk, cittadina dell’odierna Bulgaria sul basso Danubio) in grandi metropoli europee come Londra e Vienna, Francoforte e Zurigo, intraprende una battaglia senza speranze. È il suo paradosso e la sua vera identità: annullare da una posizione di debolezza il perverso carisma della morte. E lo fa brandendo la scrittura e ricordando che anche per lui, come per Kafka, scrivere è pregare. Non ha dubbi sugli strumenti della lotta: a ogni frase che annoti – suggerisce a se stesso – riguadagni un pezzo della tua vita. E dunque occorre scrivere finché non si chiuderanno gli occhi, finché non verrà meno il respiro, perché nella lunga scia di parole lasciata dalle sue fedeli matite egli ritrova miracolosamente la forza per opporsi a ogni dissolvimento. Non più smarrito, disperato o vulnerabile, ma assolutamente sicuro e pronto a ridare voce a ciò che di più caro la vita gli ha eclissato, in un mondo che egli sente come una fanta-smagoria inesauribile. Canetti restava fedele all’immagine di sopravvissuto, come amava definirsi, radicato nel presente per rubare al tempo i tesori della propria memoria. Ma via via le immagini si sono rarefatte e questo minimalista del pensiero ha posto non di rado fra sé e il lettore insondabili schegge di parole, frammenti insoluti, oltre la cui soglia è talvolta arduo inoltrarsi.
Anche in questo libro non c’è inevitabilmente un unico percorso. Rie-merge il tema del potere che l’autore ha coltivato da sempre, inscindibile dall’arroganza della morte che ne è la vera essenza. Non a caso lo scrittore inizia il suo furioso zibaldone nel 1942 mentre il mondo è preda di un delirio distruttivo e Dio, a suo parere, «ha sulla fronte il marchio di Caino della guerra». A distanza di tempo ricorderà dittatori come Stalin e Saddam, il nazismo e il tragico destino degli ebrei e per anni si dedicherà come un vero detective alla stesura di un imponente saggio sociologico, Massa e potere, «afferrando il secolo alla gola» e tentando – come si legge in queste pagine – «di rintracciare tutti i delitti compiuti dal potere» e «l’intento persecutorio dentro di noi».
Il libro contro la morte è fatto di note senza tempo, veri e propri dia-grammi dell’anima filtrati da un’ossessione che tuttavia si stempera in infinite prospettive: dalla metempsicosi all’idea di Dio, il paranoico – suggerisce lo scrittore – che annienta gli uomini perché da essi si sente perseguitato; e poi il buddhismo e Maometto, le teorie politiche dell’800 e la tragedia del nazismo. Dolcissimi anche i ricordi delle due mogli: Veza, la prima scomparsa nel 1963, e poi Hera Buschor, museo-loga e restauratrice svizzera da cui ebbe nel 1972 la figlia Johanna. Non mancano brevi flash sugli autori più amati, da Büchner, a Kafka, da Walser a Musil. Ma ben più gustose e stimolanti sono la invettive contro colleghi del livello di Nietzsche o di Eliot. Per il primo prova avversione e ripugnanza al punto da definirlo «un amante palese e in incognito dell’uccidere», mentre ritiene che il secondo, a suo parere l’intellettuale più arido del secolo, sia diventato «poeta solo perché a lui il cuore batte meno che ad altri».
Il tribunale canettiano non fa sconti a nessuno: non perdona Kleist per il suo suicidio, attacca Hemingway, la cui vita gli pare superflua e dannosa e diffida perfino del giovane Thomas Bernhard, conosciuto nel 1962, definendolo ipocondriaco. Strano a dirsi, guarda però con interesse al Diario di Cesare Pavese, pieno di cose che lo appassionano, così come la sua morte, predisposta senza abuso. Un fatto privato, per così dire. «Se ne ha notizia; ma non diventa un modello». Naturale che si senta più attratto da chi la morte la rifugge o la detesta, come Goethe o l’amato Robert Walser. Per non parlare dell’ebreo Jean Améry a cui la morte «è saltata letteralmente addosso», torturato e privato della sua dignità in un campo di concentramento. L’ebreo Canetti, non coinvolto da quella tragedia epocale, prova un senso di sconforto e di profonda vergogna per essere sopravvissuto e non aver condiviso il grande terrore. Per fortuna talvolta sa guardare in faccia la morte con surreale leggerezza. Come quando racconta di qualcuno che ama il vento e si fa cremare per poter volar via o della cassa dispersa durante il funerale, così la fossa viene riempita con i parenti in lutto su cui anche il morto, uscito dal suo nascondiglio, getta l’ultima manciata di terra. E non è un caso che citi un sogno di Bun˜uel seduto a tavola con il padre morto che mangia lentamente, mentre sussurra alle sorelle e alla mamma: «Non dobbiamo assolutamente dirglielo».
Forse questo era il tono giusto per scalzare la morte in una battaglia in cui la vita trasforma la sua impotenza in uno sdegnoso atto di accusa. Elias Canetti, insofferente di ogni ruolo, si assume questo compito tra glosse e aforismi, con una chiarezza e una determinazione senza cui, come diceva Stendhal, il mondo è distrutto.

Related posts

Viale dei ciliegi

Fierezza e inconciliabilità con il mondo borghese

Satira editoriale