Il mondo che verrà: 8. e ultima parte – Qualunque sarà la strategia che Angela Merkel adotterà dopo le recenti elezioni, il destino degli europei resterà nelle mani della Germania. E questo già dai tempi di Carlo Magno
Un vero bilancio sulle elezioni tedesche potremo farlo quando Angela Merkel avrà formato una nuova coalizione, e quindi avrà negoziato il suo nuovo programma di governo con gli alleati, presumibilmente i Liberali e i Verdi. Per adesso osserviamo i messaggi che l’elettorato tedesco ha trasmesso, spesso contraddittori. L’avanzata dell’estrema destra è la conferma che l’onda lunga dei populismi (dopo Brexit e Trump) non si è esaurita. Qualcuno frettolosamente aveva decretato il cessato allarme dopo l’elezione di Emmanuel Macron in Francia, ma la Germania dimostra che gli umori nazionalisti e sovranisti restano forti. La motivazione prevalente dietro il voto all’Afd (estrema destra) è una bocciatura della politica di benvenuto ai profughi, che la Merkel varò nel 2015. Anche se la Merkel dopo di allora ha cambiato posizione, questo non è bastato a salvare la sua Cdu da un vero tracollo. Un altro partito che ha avuto successo, però, è quello liberale che invece rappresenta l’anima globalista; insieme con i Verdi che sono pro-immigrazione nonché europeisti. È difficile trovare una sintesi, ma è proprio quello che la Merkel dovrà fare. La mia previsione è che si sposterà un po’ più a destra, verso le posizioni del partito fratello bavarese, la Csu. Sull’Europa la logica sarebbe di ripiegarsi in un modello a due velocità, con il vecchio nucleo duro della Comunità a Sei come motore propulsivo. Eviterei di celebrare la fine della leadership tedesca. Troppe volte in passato ho letto, ascoltato, e talvolta condiviso, dei verdetti negativi sulla Germania. Quasi sempre sbagliati.
Così come negli anni Settanta avevamo sbagliato a vedere il fascismo di ritorno in Germania (all’epoca della lotta contro il terrorismo rosso), negli anni Novanta abbiamo celebrato la sua decadenza economica un po’ troppo presto. Sulla Germania sembriamo prigionieri di un pregiudizio negativo; è un atteggiamento opposto e simmetrico rispetto a quello degli anni Trenta del secolo scorso, quando inglesi e francesi sottovalutarono Adolf Hitler, il suo riarmo, le sue mire revansciste, espansioniste e belliciste.
C’è qualcosa che ci sfugge sempre della Germania, eppure non possiamo davvero permetterci di non capirla. Il destino dell’Europa è nelle sue mani, in misura prevalente. E forse questa non è una novità. Almeno: non più dai tempi di Carlo Magno?
«Fissare» la Germania su una carta geografica non è impresa facile. La nazione tedesca cambia forma e dimensione con una frequenza impressionante. I «salti» da una Germania all’altra possono essere notevoli. Le mappe vanno corrette spesso. Dal 1871 (prima unità tedesca) a oggi, praticamente ogni generazione tedesca ha visto nel corso della propria vita qualche modifica nel perimetro, nei confini del proprio paese. A volte sono cambiamenti giganteschi: dalla miriade di staterelli pre-1871, quando la Germania era molto più frammentata dell’Italia, fino al Primo o al Terzo Reich, si salta da una galassia di microregioni all’impero continentale.
Se si escludono le mitologie nazionaliste inventate dai poeti romantici o dal compositore Richard Wagner, è perfino difficile risalire all’idea originaria di popolo tedesco: più arduo di quanto non lo sia per noi italiani. Se non altro, a noi è d’aiuto la geografia: il Mediterraneo e le Alpi sono frontiere naturali. La Germania ha un confine marittimo a nord, ma già a sud la cosa si complica perché tra lei e le Alpi si sono infilati da secoli un paio di popoli di lingua e cultura comune (l’Austria, la Svizzera tedesca), però con un’identità geopolitica separata. A est e ovest, non ci sono confini naturali così precisi. A ovest, un fiume come il Reno ha avuto talvolta questo ruolo di separazione, ma troppe volte uno dei popoli rivieraschi è debordato sull’altra sponda occupandola a lungo. Da questa mancanza di confini fisici deriva il «fatto geografico» che la Germania è per sua natura un’entità instabile. E come si muove, perturba qualche vicino. Ne sanno qualcosa polacchi, russi, cechi a est; francesi, belgi, olandesi a ovest.
Inoltre non c’è nessun’altra nazione che abbia avuto vocazione «europea» da così tanto tempo. Praticamente, dopo la fine dell’Impero romano, chi si candida a ereditarne il ruolo unificante sono soggetti politici, dinastie, potenze che in qualche modo gravitano attorno a un baricentro germanico. L’Impero carolingio è etnicamente germanico, anche se i francesi di oggi fanno di tutto per accaparrarselo: i franchi di allora, però, sono popoli germanici che hanno soggiogato i gallo-romani, sia pure adottandone la religione cristiana. Carlomagno, quando muore, viene sepolto ad Aquisgrana, cioè Aachen, in Germania. L’Impero carolingio è il primo che aspira a ridare unità all’Europa inseguendo la riconquista di un perimetro non troppo dissimile dall’Impero romano: salvo la rinuncia alle province della penisola iberica, del Nord Africa, del Medio Oriente e dell’Italia meridionale. Osservando bene la linea rossa che descrive e racchiude le conquiste del «germanico» Carlomagno, sapete cosa viene fuori? Dentro quella linea rossa ci sta grosso modo l’Europa a Sei, cioè il nucleo fondatore della prima Comunità europea, antecedente a tutti gli allargamenti: quell’Unione che resistette piuttosto bene dal Trattato di Roma del 1957 fino al 1973, anno del primo allargamento, con il fatidico ingresso della Gran Bretagna.
Tuttavia, l’Europa a Sei di Carlomagno si ferma proprio a Roma; più a sud i carolingi non si spingono. Naturalmente, queste sono esercitazioni geografiche fatte usando parametri del nostro tempo: l’idea di Europa per Carlomagno era un’astrazione (quella dell’Impero romano no, l’aspirazione a ricostruirlo è una costante che attraversa tutta la storia del continente). Comunque è l’Impero carolingio, dopo quello romano, a dare una moneta unica all’Europa: in un’epoca in cui il cristianesimo, religione globale per gli europei di allora, definisce un’identità più importante della lingua o del luogo di nascita. In questo senso, la moneta unica carolingia e un’idea di Europa precedono il concetto di nazione, che è molto successivo.
Dopo il disfacimento delle dinastie carolingie, il più importante impero a candidarsi per un ruolo continentale e a conquistare una proiezione europea, è il Sacro Romano Impero. Il cui nome completo è Heiliges Römisches Reich Deutscher Nation, Sacro Romano Impero della Nazione Germanica, quindi una potenza romano-germanica. Anche se la sua solidità è molto variabile, sulla carta è il più longevo di tutti gli imperi europei: la data di nascita ufficiale è il 962, quella di morte il 1806. Più di otto secoli. Da Ottone I, incoronato imperatore a Roma, fino a Francesco II di Asburgo-Lorena. È celebre la battuta del filosofo illuminista francese Voltaire, secondo il quale nell’Ottocento il Sacro Romano Impero «aveva smesso da tempo di essere sia sacro, sia romano, sia un vero impero». Giusto. Non aveva però mai abbandonato il suo ancoraggio germanico. Era riuscito a far coabitare nel suo seno, con alterne vicende, popoli di ceppo tedesco, gallico e italico.
Le carte di questo impero hanno avuto variazioni considerevoli, vista la durata; ma ci sono delle costanti: un nucleo duro ha spesso unito le regioni germaniche e lotaringie con le Fiandre (Belgio-Olanda), pezzi di Francia orientale e l’Italia del Nord. Di nuovo: ecco, dentro la linea rossa del Sacro Romano Impero, il nucleo originario della Comunità europea, con tanto di federalismo, perché quell’impero così poco imperiale (aveva ragione Voltaire) era ricco di autonomie locali, poco accentratore. Sempre sotto regìa germanica, da oltre un millennio. Nonostante la barriera architettonica delle Alpi, è dai tempi dell’Europa lotaringia che Lombardia, pezzi di Triveneto e di Emilia hanno allentato i legami con la romanità e sono attratti periodicamente verso l’orbita germanica. La Lombardia deve il nome ai longobardi, tribù teutonica… Naturalmente, i giochi che sto facendo con le carte geografiche e storiche non vanno confusi con dei parametri etnici. Invasioni e migrazioni hanno mescolato per secoli i nostri Dna, seminando confusioni e contaminazioni.
Più di vent’anni fa, in un libro intitolato Germanizzazione (Laterza, 1996), scrivevo di quell’area postcarolingia incorporata nel Sacro Impero Romano-Germanico: «È l’Europa che va dalla Frisia e dal plat pays fiammingo fino a lambire le colline senesi, includendo l’Alsazia-Lorena, la Borgogna, un pezzo di Renania, la Svizzera, la Lombardia e la Terza Italia (Triveneto-Emilia). È un’Europa che per quasi un millennio ha difeso orgogliosamente la sua micro-statualità, garanzia di autonomia per una società civile evoluta e intraprendente. È la culla del capitalismo, custodita in una miriade di città-Stato e repubbliche democratiche di antichissime origini. È stata da tempo immemorabile la terra dello Stato minimo, della libertà d’impresa». Va aggiunto, però, che il nucleo centrale germanico fin dal Medio Evo era dilaniato fra vocazioni e proiezioni geografiche molto diverse. Le zone che sarebbero diventate Prussia guardavano a est, il loro rivale – o partner – naturale era la Russia. I borghi mercantili della Lega anseatica (simili alle nostre Repubbliche marinare) trafficavano sui fiumi in direzione di Amburgo e con vari sbocchi più a nord, verso i paesi scandinavi o la Gran Bretagna, in futuro verso l’Atlantico e l’America. La Renania era in naturale simbiosi, o avvinghiata in contese territoriali, con la Francia. Il Sud e la Baviera infittivano i rapporti con l’Italia e i Balcani. Spinte centrifughe, multipolari, vocazioni molteplici. Unità nella diversità. Qualunque sia la strategia che la Merkel sceglierà, il futuro dell’Europa continuerà a ruotare attorno al baricentro tedesco.