Perché tanta voglia di indipendenza?

by Claudia

Spagna – La gestione della questione catalana fatta dal governo di Mariano Rajoy è una delle cause principali dell’aumento del secessionismo di Barcellona in questi ultimi anni

Mancanza di rispetto. Questa è la prima risposta che danno i catalani che hanno sposato la causa indipendentista, quando nelle inchieste demoscopiche viene posto loro la domanda del perché si siano radicalizzati. Questa voglia di secessionismo, condivisa da persone che mai in passato avevano avuto idee separatiste, riassume molto bene lo stato d’animo di frustrazione, rabbia e umiliazione che ha vissuto buona parte dei 7,5 milioni di abitanti della Catalogna negli ultimi anni fino alla brutale repressione della polizia del 1. ottobre che ha aggravato ulteriormente la situazione. Dalla signora benestante dell’alta borghesia barcellonese passando ai contadini della provincia di Girona, fino ai figli dei «charnegos» (gli immigrati provenienti da altre regioni della Spagna che andarono a cercar lavoro nella prospera Catalogna negli anni 70-80), una massa eterogenea di catalani diversi per età e classe sociale si è convertita da tempo alla causa indipendentista.
I dati d’altronde lo confermano. Secondo un sondaggio d’opinione condotto nel 2006 solo il 14% della popolazione catalana si dichiarava a favore dell’indipendenza, nel 2011 erano il 25% e oggi sono circa il 50%. Il secessionismo, pur essendo stato un movimento presente storicamente in Catalogna già nel secolo scorso che portò anche alla proclamazione della breve esperienza della Repubblica catalana nel 1934, numericamente è sempre stato minoritario. Quali sono dunque le cause che in soli 10 anni hanno portato alla situazione attuale, esacerbando gli animi di molti catalani una volta moderati? Fondamentalmente gli analisti individuano due ragioni principali: una di tipo politico e l’altra più legata all’emotività ed ai sentimenti.
L’atteggiamento ostinatamente intransigente e anti-catalano avuto dal Partito popolare (Pp) di Mariano Rajoy in questi anni è senza dubbio la prima causa dell’attuale conflitto tra Barcellona e Madrid. Il detonatore è stato il ricorso presentato alla Corte Costituzionale dal Pp che portò alla sostanziale abolizione dello Statuto di autonomia catalano nel 2010, che riconosceva la Catalogna come «nazione». In seguito, una volta arrivato al potere nel 2011, il governo di Rajoy non ha fatto nulla per affrontare la questione catalana, negandosi a qualsiasi tipo di dialogo con Barcellona. Ma non solo, l’esecutivo di Madrid è andato oltre compiendo varie operazioni al limite della legalità per cercare di screditare il governo catalano. Due di particolare trascendenza e gravità vedono tuttora coinvolto l’ex ministro spagnolo dell’Interno Fernández Díaz, accusato di avere creato una struttura parallela alla polizia di Stato per poter interferire nella situazione politica catalana. In particolare l’ex ministro avrebbe usato questa «polizia politica» per cercare prove di presunta corruzione contro dirigenti dei due maggiori partiti indipendentisti (PDCAT ed Esquerra Republicana). Lo stesso Fernández Díaz si era già distinto in passato per aver accusato senza prove l’ex presidente della Generalitat (il governo catalano) Artur Mas di avere dei conti bancari in paradisi fiscali durante la campagna elettorale per le elezioni catalane del 2012.
Quelle stesse elezioni furono anche quelle della «svolta indipendentista» di Artur Mas e del suo partito. Quest’ultimi hanno anche loro buona parte di responsabilità dello scontro frontale tra Barcellona e Madrid. L’ex presidente dell’esecutivo catalano, l’uomo che realmente tira le fila del partito dietro l’attuale presidente della Generalitat Carles Puigdemont, non era mai stato secessionista, così come il suo partito PDCAT, che fino ad allora era considerato «nazionalista catalano moderato». Tuttavia la crisi economica obbligò Artur Mas a una serie di tagli della spesa pubblica in ambito sociale e vari casi di corruzione colpirono il suo partito, così Mas decise strategicamente di salire sul carro dell’independentismo nel 2012, formando una coalizione di governo con la sinistra repubblicana di ERC. Più quindi per ragioni di politica interna catalana (il PDCAT cercava in questo modo di nascondere le proprie magagne) che per vera convinzione, si formò quindi una bizzarra coalizione di governo formata da un partito di centro-destra borghese e uno di sinistra, che tuttora governa la Catalogna con il nome di «Junts pel sì» (con l’appoggio decisivo dei 6 membri degli antisistema della CUP). Quest’alleanza si formò con l’obiettivo di ambire alla creazione di un nuovo Stato catalano, contribuendo in questo modo a far crescere in maniera sostanziale le idee del nazionalismo indipendentista.
A partire dal 2012 cominciò di conseguenza a prendere piede in Catalogna l’idea della separazione dalla Spagna come soluzione ai problemi economico-sociali della regione e si assistette alle prime manifestazioni di massa in favore della causa secessionista, che sfociarono poi nel referendum consultivo del 2014 (posteriormente dichiarato illegale dal Tribunale costituzionale e che ha portato ad una condanna pecuniaria di più di 5 milioni di euro contro Artur Mas e la sua attuale inabilitazione dalle cariche pubbliche per due anni) fino a quello recente del drammatico e già storico 1. ottobre 2017. Inoltre da anni imperversa in Catalogna una retorica che tende a diffondere il concetto semplicistico secondo il quale «la Spagna ci ruba». Questo slogan, sentito in molti bar di Barcellona e usato politicamente dai fautori della causa secessionista grazie anche al controllo del canale televisivo regionale TV3, è uno dei capisaldi della propaganda indipendentista e tende a sottolineare il fatto che una delle regioni più ricche di Spagna (produce il 22% del PIL spagnolo, pari a quello del Portogallo) riceva molto meno dallo Stato centralista spagnolo di quello che la Catalogna versa nelle casse di Madrid. La questione economica, molto dibattuta anche tra gli esperti con dati e cifre che vengono manipolate a seconda dell’appartenenza politica, ha svolto senz’altro una parte importante nella nascita dei sentimenti secessionisti ma non è la principale.
È soprattutto l’assenza di una risposta data dal Governo di Rajoy alle rivendicazioni catalane che chiedevano una maggiore autonomia (sul modello basco), la vera causa del proliferare dei sentimenti indipendentisti, così come il clamoroso rifiuto del premier spagnolo di ricevere Artur Mas nel 2014 per affrontare questi temi. Frustrazione e rabbia sono andati crescendo anno dopo anno e hanno spinto tantissimi catalani a protestare per le strade di Barcellona, stufi del fatto che il governo di Rajoy facesse finta di non sentire le istanze e le ragioni di milioni di persone (basti pensare che la richiesta dello svolgimento di un referendum sull’indipendenza è richiesto dall’80% dei catalani, quindi anche da quelli che sono contrari alla separazione da Madrid, ma che vogliono semplicemente poter votare).
Inoltre i catalani percepiscono disprezzo e ostilità crescente da parte del resto della Spagna, come confermato da studi sul nazionalismo e anche da fatti concreti. A fine settembre la partenza degli agenti della Guardia Civil mandati in Catalogna dal governo di Madrid per cercare di impedire lo svolgimento del referendum è stato accompagnato da applausi e cori da stadio da parte di migliaia di persone scese in strada in varie città spagnole al grido di «Andate a prenderli». Nella regione di Barcellona è quindi molto diffusa la sensazione che il resto del Paese odi la Catalogna e che, soprattutto, si sia mancato di rispetto nei loro confronti. È difficile dar torto a questa tesi, visto l’atteggiamento sprezzante mantenuto dal governo di Mariano Rajoy in tutti questi anni.
Si è assistito a tutta una serie di azioni e dichiarazioni incendiarie da parte di membri del governo Rajoy o di alti dirigenti del Partito popolare, supportati anche da una campagna mediatica «spagnolista» schierata all’unisono anche contro la sola ipotesi della celebrazione di un referendum concordato in Catalogna. Così si sono sentite frasi come quelle del ministro dell’Istruzione di Madrid che diceva che bisognava «spagnolizzare» i bambini catalani fino alla più recente del portavoce del Pp che ha affermato che l’attuale Presidente della Generalitat «Carles Puigdemont potrebbe fare la fine di Companys», riferendosi al capo del governo catalano che nel 1934 proclamò la secessione, fu arrestato e poi fucilato dalla dittatura franchista. Non da ultimo l’intervento del re Felipe VI che, invece di chetare gli animi e promuovere il dialogo tra le parti, ha preferito appoggiare le decisioni prese da Rajoy senza stigmatizzare le violenze successe durante il referendum, ha aizzato ancor di più lo spirito antimonarchico e repubblicano presente storicamente in Catalogna.
Ciononostante il Presidente della Generalitat Carles Puigdemont, vistosi sull’orlo del precipizio in virtù delle pressioni internazionali che gli sconsigliavano una dichiarazione unilaterale di indipendenza e a seguito anche della decisione di molte grandi aziende catalane di trasferire le loro sedi fuori dalla regione, ha optato per una decisione intermedia ai limiti del surreale. Ha dichiarato l’indipendenza per subito sospenderla poco dopo, aprendo le porte a un dialogo con Madrid. Una commedia che solo un atteggiamento veramente ponderato del governo di Mariano Rajoy può evitare di trasformarla in tragedia.