Londra – Non mancano i pretendenti di Downing Street ma in questa fase delicata in cui non si riesce a concretizzare la Brexit tutti pensano che Theresa May debba stare al suo posto. Anche se la sua leadership non è né forte né stabile
Quello di Downing Street è un trono che nessuno vuole. O per lo meno non ora. I pretendenti in teoria non mancano, anzi abbondano, ma in questa fase storica, con la Brexit ancora in altissimo mare non solo da un punto di vista negoziale ma anche meramente ideologico, la maggioranza continua a pensare che tutto sommato le mani sfortunate ma non dissennate di Theresa May continuino ad essere la soluzione migliore per superare la situazione e aspettare che passi il lungo inverno della confusione. Dopo una serie strabiliante di sventure iniziate in primavera – cinque attentati terroristici, un’elezione andata malissimo, una gestione a dir poco legnosa della tragedia enorme della Grenfell Tower, un discorso che doveva servire al rilancio ed è finito con lo slogan sullo sfondo che cadeva lettera per lettera – sono in pochi a Londra a pensare che la premier abbia ancora un futuro davanti a sé.
La sua leadership è ormai ben lontana dall’essere «forte e stabile» come prometteva, e l’unico vero asso nella manica della May è quella di essere l’esatto contrario della «donna tremendamente difficile» che sperava di essere: se resterà a Downing Street ancora per un po’ è proprio perché è la più calma in circolazione. Solo che non tutti sono d’accordo con la linea attendista e alcuni vorrebbero che andasse via subito per evitare che il partito, i cui membri hanno 72 anni in media, si dissolva e muoia per mancanza di linfa e di energie nuove, travolto da un risultato del referendum che è come l’abbraccio di un «white walker»: ha costretto tutti i politici a trasformarsi in brexiters.
L’uomo che la odia più apertamente è l’ex cancelliere George Osborne, uno che ha detto di volerla vedere fatta a pezzi nel suo frigo e che tutte le sere sulle pagine del quotidiano gratis «Evening Standard» racconta ai londinesi che rientrano stanchi verso casa quanto il partito meriti di meglio. E infatti ci sarebbe anche la sua mano dietro al tentativo di golpe, abbozzato e fallito in poche ore, di Gary Shapps e Ed Vaizey, due deputati che hanno dichiarato apertamente quello che tutti sapevano, ossia che tra i Tories si parla ormai apertamente di mandare a casa la May. Solo che delle 48 firme necessarie per chiedere al comitato 1922, quello che si occupa delle questioni interne al partito, ce ne sarebbero per ora solo una trentina. Tutti gli altri circa trecento deputati sono ancora indecisi su come procedere. Anche per quello più motivato di tutti ad un cambio della guardia: Boris Johnson, che da mesi sta disseminando trappole e trabocchetti sul percorso della May, deve calcolare bene le sue prossime mosse. Anche perché a furia di tradimenti il suo seguito si è, come dire, un po’ eroso.
Per mesi Boris ha oscillato costantemente tra l’incoronazione e il licenziamento. Da una parte è indubbiamente carismatico e quando parla o scrive la gente lo ascolta e lo capisce, soprattutto quando tuona che «il leone britannico deve essere lasciato ruggire» durante una conferenza mesta, specchio di un Paese che sta vedendo l’economia indebolirsi, le banche e le istituzioni finanziarie scappare una ad una e deve confrontarsi con una Bruxelles tutt’altro che impressionata dalla capacità negoziale del team londinese. Dall’altra la serie di marachelle da bambino dispettoso che vuole mettere alla prova la pazienza e l’autorità dei genitori è stata un po’ troppo lunga e quando la settimana scorsa ha detto che la città libica di Sirte può diventare come Dubai, «basta che rimuova i cadaveri dalle strade», in molti hanno detto basta e chiesto alla May di cacciarlo. Lei non lo ha escluso, anche se il sospetto è che lui non aspetti altro: anche se nel partito lo odiano, il suo punto di forza è la carica energica e ottimistica che prima o poi bisognerà dare alla Brexit, sempre che si decida di portarla avanti. Boris dà ai britannici un’immagine molto vincente e questo prima o poi potrebbe tornargli utile. E lui lo sa.
Anche Johnson però ormai ha perso smalto anche nella categoria «bizarre» nella quale ambisce da sempre a collocarsi. A soppiantarlo nel cuore dei rari giovani conservatori è stato Jacob Rees-Mogg, un uomo così ottocentesco nelle idee e nello stile da essere quasi eccentrico. Brexiter di ferro, contrario all’aborto anche nei casi di stupro, parla come un gentiluomo d’altri tempi e dice cose datate e vintage che divertono e piacciono a chi crede nell’eccezionalità del Regno Unito. Ma nessuno lo prende davvero sul serio, mentre nella categoria dei cinquantenni si sta facendo notare per il suo profilo istituzionale il ministro degli Interni Amber Rudd, una che sembra giocare lo stesso gioco di Theresa May negli ultimi giorni di David Cameron: l’unica persona che non ha bevuto e che può guidare dopo la festa. La Rudd ha assunto il guru australiano della strategia politica Lynton Crosby, artefice di molte vittorie ma anche di fragorose sconfitte come quella della stessa May alle elezioni-lampo, e questo dimostra che qualche ambizione ce l’ha.
Il suo principale punto debole è di aver votato «remain» al referendum, anche se nell’ultimo anno e mezzo si è riposizionata con una serie di dichiarazioni più da falco che da colomba, e di essere sorella di uno dei personaggi chiave del tentativo di mitigare o addirittura evitare l’uscita dalla Ue, il potentissimo Roland Rudd.
E poi ci sono i giovani, tra cui spicca l’unica persona che dia un senso di futuro ad un partito esangue: Ruth Davidson, la formidabile leader dei Tories scozzesi, energica trentottenne gay, lucida, dalla battuta pronta, ottimista, europeista, attenta al sociale, una che fa discorsi travolgenti come quelli di Johnson ma con tutt’altra sostanza e che piace a tutti. I suoi punti deboli sono due: il primo, il più evidente, è che non è eletta a Westminster – dove però ha portato ben tredici deputati, un numero enorme per i Tories – e che bisognerà aspettare delle elezioni suppletive per poterla candidare eventualmente.
Il secondo è che tutte le sue belle qualità, compresa quella di essere una delle poche a difendere il «remain» in maniera schietta e aperta, non possono essere sprecate in un contesto in cui il partito è ancora attraversato da una faida tra euroscettici e liberali talmente profonda che piuttosto che fare concessioni a Bruxelles si preferisce immaginare il suicidio economico e chiedere al cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond di accantonare fondi per far fronte allo scenario del «no deal», del mancato accordo. Quello, perfettamente evitabile, in cui si viene divorati dai dazi commerciali e dalle mille conseguenze che gli eurofobi non vogliono neanche contemplare.
Che il Regno Unito sia pronto per un vero leader o preferisca continuare sulla scia di una reggenza come quella della May, o del profilo tecnico che potrebbe sostituirla a un certo punto – il ministro per la Brexit David Davis o lo stesso Hammond, che però è accusato di non affrontare l’uscita dalla Ue con la necessaria verve – si vedrà nei prossimi mesi, quando l’economia continuerà a dare i suoi segnali sinistri e notizie come quella di Bombardier e dei suoi dazi del 300% sulle importazioni negli Stati Uniti porteranno ad un bagno di realtà. Nel frattempo Jeremy Corbyn continua ad avanzare nei sondaggi e secondo alcuni avrebbe addirittura cinque punti di vantaggio.
L’indecisione potrebbe essere una zona di conforto, con la May che per tutti i suoi errori è finita a fare lo scudo umano del suo partito a Bruxelles. Ma tra un accoltellamento e una trama sotterranea, che la premier sta usando per prendere tempo e recuperare fiato, c’è il problema di un partito che manca di un progetto e di una visione concreta per un paese seduto davanti ad un bivio e indeciso su dove andare dalla mattina del 24 giugno del 2016, quando ha votato per una parola, Brexit, di cui non conosceva il significato.