Una rivoluzione non dichiarata

Fra poco tempo sapremo se ed eventualmente come la Catalogna sarà una repubblica indipendente oppure resterà una regione più o meno autonoma del Regno di Spagna. Dopo la dichiarazione di «indipendenza sospesa», letta da Carles Puigdemont davanti al parlamento catalano, e gli otto giorni concessigli in replica da Mariano Rajoy per chiarire se di indipendenza o meno si tratta (e nel primo caso, per revocarla), lo scontro sarà comunque inevitabile. L’ombra dell’articolo 155 della Costituzione spagnola incombe sulla Catalogna, che da regione autonoma verrebbe declassata a territorio commissariato da Madrid. È molto difficile immaginare che indipendenza o commissariamento possano determinarsi in via del tutto pacifica. Probabilmente non ci sarà una seconda guerra civile in Spagna, ma il rischio di violenze e dure repressioni, forse anche di attentati terroristici, è elevato.
Sarà bene ricordare qual è la posta in gioco. La Spagna è un grande paese europeo, con una storia, una cultura e uno stile di vita noti in tutto il mondo. Se dovesse spezzarsi, perdendo la sua regione – ma per i catalani è nazione – più ricca, centro economico e finanziario del Paese, non sarebbe più Spagna. Contemporaneamente, la Catalogna si autoescluderebbe dall’Unione Europea e dall’euro, producendo una situazione non prevista e quindi non codificata in alcun trattato. Le regole europee valgono per gli Stati, non per parti di essi. Infine, e non per ultimo, la Catalogna sarebbe altrettanto automaticamente fuori dalla Nato. Con ogni probabilità, questa nuova repubblica indipendente sarebbe neutrale. Per la prima volta nella sua storia, l’Alleanza Atlantica a guida americana, costituita nel 1949 per consentire all’Occidente di affrontare unito la minaccia sovietica, perderebbe un pezzo. Prima ancora dell’Unione Europea, che deve ancora formalizzare il Brexit.
Alcuni considerano che la secessione della Catalogna potrebbe addirittura innescare un effetto domino, riaccendendo più o meno radicati separatismi: dalle Fiandre alla Scozia o alla Corsica, fino al Veneto o ad altre regioni italiane. Non è affatto scontato che ciò avvenga immediatamente, ma certo il caso catalano creerebbe un precedente incoraggiante per i secessionisti. All’interno stesso della Spagna, il faticoso equilibrio delle autonomie potrebbe essere sconvolto dalla secessione catalana, riattizzando incendi ad oggi sedati. A cominciare dal Paese Basco.
Questo elenco disegna le proporzioni straordinarie della partita in gioco. E mette ancora più in evidenza la scarsa incisività non solo delle istituzioni comunitarie – per quel poco che valgono – ma persino dei principali partner europei, che in pubblico hanno taciuto o si sono limitati a un appoggio di principio al governo di Madrid in nome della legalità costituzionale, mentre in privato, attraverso il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, hanno fatto sapere a Puigdemont di non approvare il suo anelito indipendentista.
Con questo tocchiamo un aspetto decisivo della crisi fra Barcellona e Madrid. Quest’ultima accusa i catalani indipendentisti di violare la Costituzione. Vero. Il fatto è però che nessuno Stato è mai nato senza violare la Costituzione o le altre leggi fondamentali dello Stato da cui intendeva separarsi. Sono gli Stati che producono le Costituzioni, non viceversa. Come potrebbe la Catalogna diventare indipendente nel rispetto della Costituzione spagnola? Forse che le colonie americane si sono ribellate alla Corona nel rispetto dell’autorità del re inglese? O l’Italia si è unita preservando le leggi degli Stati preunitari assorbiti dal Piemonte?
Conviene chiamare le cose con il loro nome: il tentativo di secessione della Catalogna è una rivoluzione non dichiarata, e per ora solo abbozzata. Tentativo forse non appoggiato dalla maggioranza dei catalani, o forse sì: il referendum del 1. ottobre, nel quale il 90% dei catalani votanti si è espresso a favore dell’indipendenza, ha segnato la partecipazione di quattro elettori su dieci, anche a causa della violenta repressione della polizia spagnola. Ma da quando in qua le rivoluzioni si fanno a colpi di maggioranza? Per restare agli Stati Uniti, qualcuno può sostenere che i coloni ribelli fossero maggioritari fra i sudditi di Sua Maestà stanziati in quei territori? I bolscevichi erano la maggioranza in Russia? O forse gli italiani che votarono in plebisciti piuttosto raffazzonati l’adesione a casa Savoia erano la più parte degli abitanti della Penisola?
Ci siamo disabituati a identificare le cose con il loro nome. Così i catalani indipendentisti fanno la rivoluzione in nome di una legge votata dal loro parlamento ma bocciata da Madrid, mentre il governo Rajoy li minaccia e reprime, domani forse con la forza militare, in nome della Costituzione del Regno di Spagna dalla quale i catalani secessionisti intendono distaccarsi.
Un aspetto tutt’altro che secondario della contesa è il carattere istituzionale dello Stato. La Spagna è e a quanto pare intende rimanere una monarchia. La Catalogna intende fondarsi come repubblica. Queste opposte opzioni affondano le loro radici nella storia e principalmente nella guerra civile del 1936-1939. Non si tratta di forma, ma di sostanza e di memoria storica. L’infelice discorso con cui Filippo VI ha voluto schierare la Corona con il governo, trattando i catalani da ribelli, ha contribuito ad allargare il fossato fra la maggior parte della Spagna e la regione/nazione di Catalogna.
Su tutto, domina la sconfitta della politica. I leader di entrambi i campi, che attraversano e spaccano la stessa Catalogna, si sono rivelati apprendisti stregoni. Ma quando la politica muore, rinasce la violenza. La Spagna ne ha una memoria viva e relativamente recente. Si può sperare che questo basti a riportare sulla via del compromesso chi ha finora pilotato lo scontro? Si può. Ma non ci scommetteremmo.

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