Autenticamente dolce

Benché il suo nome non sia mai assurto all’olimpo delle star musicali universalmente riconosciute dal grande pubblico, non v’è dubbio che l’improvvisa dipartita di Leon Russell, scomparso nel novembre scorso all’età di 74 anni, abbia costituito un sincero dolore per tutti i veri appassionati di country e blues rock. Il fatto che la notizia della sua morte sia stata infine eclissata dai decessi di personaggi più famosi e celebrati quali Leonard Cohen e George Michael – passati a miglior vita nello stesso periodo, in chiusura dell’annus horribilis che il 2016 ha rappresentato per gli amanti della musica popolare – si deve principalmente alle scelte di vita del buon Leon: un artista che, pur appartenendo alla medesima generazione di icone del blues e rock quali gli amici di una vita Eric Clapton e George Harrison, ha preferito cesellare la propria arte in privato e lontano dai riflettori.
Grandissimo sessionman, arrangiatore e pianista di prim’ordine, nell’arco di oltre mezzo secolo di carriera Russell ha inanellato collaborazioni con ogni grande nome della scena rock, scegliendo tuttavia di rimanere all’ombra di colleghi più caratterialmente adatti al mondo dello stardom; e poiché i veri guru sono solitamente oscurati dai loro fortunati discepoli, ecco che la maggior parte degli ascoltatori rammenta Russell quasi esclusivamente per la sua umorale e indimenticabile partecipazione al celeberrimo Concert for Bangladesh organizzato nel 1971 dal già citato Harrison. Di certo la voce ruvida e poco melliflua di Leon, unita al suo carattere solitario e per nulla «glamorous», lo ha reso un performer difficilmente apprezzabile dalla massa degli ascoltatori casuali; ma la sua influenza artistica resta più che evidente su artisti dai background più disparati, dagli ex Beatles ai Rolling Stones, fino ad arrivare al Tom Waits dei dischi giovanili (e non solo), e, soprattutto, al devoto Elton John.
Questo nuovo On a Distant Shore, purtroppo destinato a essere infine pubblicato come album postumo, non segue l’abituale tendenza dei tanti dischi presentati dopo la morte dei loro celebri autori: infatti, lungi dal trovarci confrontati con la solita compilation di scarti e outtakes messa insieme frettolosamente da vedove affamate di royalties, abbiamo invece la possibilità di ascoltare il lavoro che Russell stava completando prima della morte. E se il CD dimostra, una volta di più, l’estrema professionalità del musicista, testimonia anche come la fine della sua vita l’abbia trovato ancora in forma più che smagliante dal punto di vista artistico. On a Distant Shore costituisce infatti un esperimento stilistico piuttosto curioso, che vede alternarsi nuove versioni in salsa «vintage» di classici del repertorio di Leon a brani composti per l’occasione – facendo dell’album un tentativo, da parte dell’autore, di convertire il proprio repertorio alle regole tipiche degli standard del Great American Songbook anni 40; lo dimostrano brani dal respiro soft e melodico, conditi da inserti orchestrali dal sapore retrò, quali Easy To Love e, soprattutto, A Song for You, da sempre uno dei classici più amati del Russell anni 70.
Il disco si dipana così tra esempi magistrali di rock blues dai toni uptempo e pezzi più lenti e romantici, passando da brani inediti a capisaldi del songbook di Leon, tutti arrangiati in chiave più che mai orecchiabile (si vedano Love This Way e lo storico This Masquerade, qui perfetto modello della fusione tra il blues puro e le gradevoli contaminazioni soul di sapore radiofonico). In effetti, quest’album sembra mostrare un Leon Russell molto più melodico e delicato del solito, disposto a tingere la propria musica di sfumature più soft e accattivanti di quanto abbia mai fatto prima: la dolce e suadente «title track» On a Distant Shore e la sempre spettacolare Hummingbird risultano qui intrise di un romanticismo inaspettato, mentre pezzi quasi struggenti come The One I Love is Wrong e Where Do We Go From Here beneficiano addirittura di un’intera sezione di archi (e perfino qualche fiato) ad accompagnare il pianoforte solista di Leon nell’intessere atmosfere quasi jazzate.
L’unico vero difetto di quest’approccio sta nel sapore un po’ zuccherino che alcuni degli arrangiamenti di stampo più «radiofonico» non riescono a evitare di infondere nei brani – con la fortunata eccezione delle tracce migliori: su tutte, una gemma come Just Leaves and Grass (collocabile al medesimo livello di qualsiasi standard americano degli anni d’oro), il blues ben poco lezioso di Black and Blue e la vibrante tensione emotiva di On the Waterfront. Fattori che garantiscono a On a Distant Shore un posto sicuro nel cuore di chiunque ami il soul-blues dal sapore vintage, nell’accezione più autentica, rendendo la scomparsa di un «lupo solitario» come Leon ancor più difficile da digerire, ma, allo stesso tempo, riconfermandolo come esponente memorabile di una scena musicale genuina quanto tuttora preziosa.

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