Chi ha visto il Conte Dracula?

Ma Dracula dov’è? Davanti al castello di Bran le turiste americane sembrano perplesse: più che un antico maniero si aspettavano una Disneyland versione horror. Anche diversi ragazzini non nascondono la loro delusione di fronte all’attrattiva che forse li ha motivati al viaggio in Romania. E non basta certo un’improbabile Casa dei fantasmi, con tanto di personale travestito da lupo mannaro o da vampiro, incastrata tra le bancarelle dei souvenir prima della biglietteria.
Il castello di Bran, per tutti «il castello di Dracula», sembra fatto apposta per smentire i luoghi comuni. In ogni caso ci dice più del nostro immaginario che del principe Vlad, il personaggio storico che lo scrittore irlandese Bram Stoker, l’autore di Dracula (1897), prese a modello nel creare il principe delle tenebre. Il principe Vlad, invece, il sangue lo versava in battaglia. Lo chiamavano l’impalatore perché questo era il suo supplizio prediletto: una volta uccise così migliaia di prigionieri turchi, una foresta di pali e di poveri corpi trafitti. Inoltre a Bran, in questo castello dall’aria nient’affatto tenebrosa, pare abbia trascorso solo pochi giorni.
Ecco, con la Romania funziona così. Bisogna liberarsi da diversi luoghi comuni per poter sperimentare uno dei Paesi europei più sorprendenti. Meglio allora lasciarsi sedurre da un altro immaginario, con radici ben piantate nella storia. Lo stesso castello di Bran, per esempio, sorge proprio sul confine tra le pianure della Valacchia e le alture della Transilvania, la «terra oltre la selva». Ma tutta la Romania, nel corso dei secoli, è stata confine tra mondi diversi, ha visto succedersi invasioni e migrazioni: romani, sassoni, ungheresi, tartari, turchi… Questi popoli a volte sono stati onde che si sono infrante e poi ritirate, altre volte alberi che hanno messo radici.
Il grigio era il colore associato alla Romania all’epoca del dittatore Ceausescu. In realtà è verde, verdissima, grazie ai suoi boschi. E colori sempre diversi li trovi negli abiti tradizionali, nei piatti tipici, nei luoghi di culto, nei fazzoletti delle donne che falciano l’erba e negli intonaci delle case. La storia romena racconta di differenze, mescolanze, convivenze, per quanto problematiche; un vero e proprio caleidoscopio di culture.
Meglio lasciarsi alle spalle Bran – e per la verità anche il castello di Peleș preso d’assalto dai turisti – e puntare sulla Transilvania: Sighișoara, Cluj-Napoca e Brașov. Città con nomi diversi, perché sono anche i luoghi dei magiari e dei sassoni, che qui hanno lasciato segni duraturi della loro presenza; città con centri storici ben ristrutturati e tanti eventi nelle piazze, ma che non hanno tradito la loro anima.
Sibiu è stata capitale della cultura nel 2007 e nel 2019 lo sarà della gastronomia. Merita di essere scoperta con la dovuta lentezza: passeggiare sotto i bastioni delle tre linee di mura, curiosare in una delle sue librerie, seguire con lo sguardo il lavoro degli artigiani eredi delle corporazioni che la fecero ricca. Tutto è quieto e accogliente.
Quando pensiamo alla Romania spesso emergono gli stereotipi legati ai suoi emigranti; invece in questo viaggio trovo tracce di italiani che vennero a cercare fortuna in questo paese come in America. Non erano imprenditori, confidavano solo nelle proprie braccia: costruirono ferrovie, lavorarono come minatori o taglialegna. Oggi hanno lo status di minoranza linguistica con il diritto a un parlamentare.
Ancora più sorprendenti sono le campagne. Questa isola di lingua latina nel grande mare slavo è anche l’inizio di un mondo rurale disteso verso est per un’infinità di chilometri; un mondo antico, simile a quello raccontato nelle pagine dei grandi romanzieri russi. Questa non è la Romania dei grandi casermoni costruiti al tempo del socialismo, o dei centri commerciali venuti dopo. È la Romania dei covoni di fieno, dei grandi portoni intagliati come opere d’arte, dei carri carichi di erba, dei cavalli e delle mucche che ancora bloccano la circolazione sulle poche strade asfaltate.
Nelle pieghe di questo mondo tradizionale si conservano capolavori straordinari. In Bucovina ammiro le facciate dipinte dei monasteri e nei fiabeschi paesaggi del Maramureș le secolari chiese di legno costruite senza utilizzare nemmeno un chiodo di ferro. La tradizione continua: ne hanno appena consacrata una nuova, il più alto edificio di culto in legno dell’intero pianeta.
Ieri e oggi: in Romania a ogni passo si trovano spunti di meditazione su questo tema, cullandosi nell’illusione di un altrove che forse potrà durare ancora. Solo che anche questo è luogo comune. Aveva ragione William Blacker, l’inglese che pochi giorni dopo la fine di Ceausescu si precipitò nel Maramureș, per scoprire una terra che finalmente poteva mostrarsi in tutta la sua bellezza ma che proprio per questo rischiava grosso. Era solo questione di tempo – scriveva Blacker in quel capolavoro che è Lungo la via incantata – prima che la modernità varcasse le montagne a passo di marcia. Era già quasi un’elegia e il tempo ha confermato queste tristi previsioni. Oggi quel mondo è davvero quasi scomparso: tanti non sono più contadini e pastori, tanti se ne sono andati all’estero e tanti sono anche tornati, ma per costruire case più moderne, diverse da quelle di una volta.
È sempre bellissimo, il Maramureș, ma non è più un mondo a parte. E forse anche noi abbiamo la nostra parte di responsabilità se troppo spesso – come ha scritto un altro grande viaggiatore, Patrick Leigh Fermor – il turismo distrugge l’oggetto del suo amore.

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