Il paese del sorriso ha appena festeggiato il Loi Krathong (il 2, 3 e 4 novembre). Il Festival delle Luci è in origine un rito collettivo associato all’acqua, che si perpetua da più di 800 anni. Nel corso della cerimonia, i partecipanti affidano i loro desideri a dei «contenitori galleggianti» (i krathong appunto) al corso di fiumi e canali.
I krathong tradizionali sono fatti a mano utilizzando corteccia di bambù, cocco, o banano, fiori veri per le decorazioni, candele e incensi. La modernità purtroppo ha portato la plastica, e si è cominciato a produrre in serie contenitori di plastica con l’inevitabile aggravio dell’inquinamento ambientale. Oggi si cerca di incentivare il ritorno ai materiali naturali. Qualcuno poi, per aumentare l’efficacia del proprio krathong aggiunge banconote, ciocche dei propri capelli, qualcuno persino le unghie, come simbolo del male o della sfortuna da lasciarsi alle spalle.
Per le celebrazioni accorrono da tutto il paese, e numerosi sono i visitatori anche dall’estero. Amata e famosa soprattutto per le sue spiagge da film, la Thailandia sta cercando di crearsi un futuro sostenibile, che sappia mantenere la propria identità e le aspettative dei farang, gli stranieri, che sempre più numerosi (circa 25 milioni all’anno) arrivano qui.
Si lavora quindi per valorizzare un patrimonio culturale e naturale prezioso, fatto di siti archeologici, incredibile biodiversità, una cucina ricchissima e una naturale attitudine all’accoglienza insita nei thailandesi.
La sfida è quella di cogliere gli innegabili benefici generati dalla crescente domanda del settore turistico, arginando l’impatto negativo che queste attività hanno sul fronte ambientale e socio-culturale. A fronte di un comparto fatto di grandi gruppi anche stranieri che gestiscono resort e grandi alberghi, il turismo basato sulle comunità locali si sta dimostrando una valida alternativa sul piano della sostenibilità e dell’equità. Per diversi motivi.
Le comunità locali, spesso schiacciate dagli stravolgimenti economici della modernità, ritrovano un fine di azione comune, si dedicano ad attività nuove aggiornando le competenze dei singoli a favore del gruppo. Ritrovano così coesione sociale e anziché abbandonare le terre d’origine per tentare fortuna nelle grandi città o nei maggiori centri turistici, restano dedicandosi alle attività tradizionali, ma con una mentalità nuova.
La Thailandia, negli ultimi cinquant’anni, sulla via del progresso e dell’industrializzazione ha perso molto della sua tradizione agricola, che vedeva uomini e donne impegnati a stretto contatto. Gli uomini hanno cominciato a cercare lavoro fuori, lontano dalla comunità. Le donne sono rimaste sole nei villaggi a occuparsi della famiglia. Si è aperta così una pericolosa ferita nel tessuto sociale, con ricadute economiche pesanti. Grazie ai progetti del Community Based Turism (http://cbtnetwork.org/) le donne hanno ritrovato un ruolo, spesso di responsabilità, all’interno dei villaggi: gestiscono attività di home-stay, sono esperte di artigianato locale e ottime cuoche.
Nella regione di Kanchanaburi, si può così attraversare il mitico ponte sul fiume Kwai (è ammesso fischiettare la marcia resa famosa dal film), partendo dalla Nam Tok Station sul trenino dai sedili in legno giallo, finestrini spalancati su una vegetazione lussureggiante e il fiume che scorre tra i villaggi. Scesi dal treno, in lancia si raggiunge un villaggio Mon (etnia di origine birmana) nascosto nella foresta. Gli abitanti lavorano nei vicini eco lodge costruiti lungo il fiume.
Oppure, più a nord, nella regione di Sukhothai, oltre ai Parchi Archeologici patrimonio UNESCO, le comunità rurali portano avanti progetti di turismo esperienziale, accogliendo i visitatori nelle proprie case, nei campi, nei piccoli laboratori di artigianato. Lo scopo è quello di valorizzare le tradizioni orafe o tessili, ad esempio, mantenendo vive le tecniche originali di lavorazione dei materiali e il design locale, evitando la produzione di quegli orrendi gadget plasticosi che invadono mercatini e tanti siti turistici (non solo in Thailandia), che spesso, in molti paesi, hanno condannato all’estinzione l’esperienza degli artigiani del posto.
Presso la comunità di Ban Na Ton Chan, le donne accompagnano i turisti nei campi, mostrano loro le colture, preparano succhi freschi e i piatti tipici. Ci si può fermare a dormire nelle capanne di bambù attrezzate per gli ospiti, e provare a usare i telai. A guardare le signore del posto, le facce antiche come lo strumento che manovrano con mani e piedi, velocissime e precise, sembra un gioco da ragazzi. Ovviamente alla prova dei fatti, un bradipo farebbe più bella figura.
Sempre nei pressi di Sukhothai, i terreni nei dintorni dell’aeroporto sono stati convertiti all’agricoltura biologica e la fattoria che li gestisce, fornisce, oltre a vitto e alloggio, anche una serie di percorsi per imparare a produrre il tè alla rosa, o il riso in molte e rare varietà, o per cavalcare i mansueti bufali d’acqua, animali fondamentali per l’ecosistema del posto.
Anche l’atteggiamento verso gli animali sta cambiando, lentamente, con il richiamo sempre più pressante a scegliere «attrazioni» in cui l’interazione uomo-animale sia rispettosa delle necessità etologiche della specie.
Le spiagge hanno sempre un richiamo potente, insomma, ma la Thailandia ha sicuramente molto di più da offrire a chi viaggia in cerca di esperienze uniche nel rispetto dell’ambiente e della popolazione.