Viaggiatori d’Occidente - Partiamo verso nuove destinazioni per dare uno sfondo ai nostri selfie?
Specchi infiniti è il titolo della nuova mostra di Yayoj Kusama al museo di arte contemporanea The Broad di Los Angeles. Tutti i cinquantamila biglietti disponibili sono stati acquistati nella prima ora di prevendita e ogni mattina davanti al museo si forma la coda per prendere il posto di chi avesse rinunciato, pagando trenta dollari.
Non è solo interesse per il percorso creativo dell’artista giapponese di ottantotto anni. Ciascun biglietto d’ingresso, infatti, dà diritto anche a trenta secondi tutti per sé all’interno di una delle sei stanze infinite, tra pareti a specchio, luci Led sfavillanti, zucche di resina illuminate o sfere fluttuanti: insomma lo sfondo perfetto per un selfie. I critici hanno storto il naso davanti a questa trasformazione del museo in una «fabbrica di selfie», ma è stata proprio la diffusione degli smartphone a far riscoprire questa artista, a lungo trascurata dalla critica; e l’apertura ai social media ha spinto The Broad al quinto posto tra i musei su Instagram.
Non a caso siamo a Los Angeles, la città dove nulla è autentico; per esempio qui tra poche settimane aprirà un parco a tema dedicato all’inverno, dove ci si potrà anche scattare un selfie in una gigantesca palla di vetro con la neve, salvo che i fiocchi di neve saranno di… plastica. L’idea sarebbe piaciuta a Andy Warhol quando scriveva: «Amo Los Angeles. Ognuno è di plastica, ma io amo la plastica, vorrei essere fatto di plastica». Proprio Andy Warhol del resto è considerato da molti l’inventore del selfie: di recente è stato venduto all’asta per quasi otto milioni di franchi un suo autoritratto del 1963 – occhiali scuri, camicia, cravatta e impermeabile – scattato con l’aiuto di una macchina per fototessere, considerato il punto di partenza della ricerca di Warhol sulla propria immagine personale.
Warhol era superficiale per definizione, felice di questa condizione: «Se volete sapere tutto su Andy Warhol, guardate solo la superficie: dei miei dipinti, dei miei film e di me, eccomi là. Dietro non c’è niente». Il problema è che nell’era dei social media la sua celebre provocazione – «Nel futuro tutti saranno famosi per quindici minuti» – non è mai sembrata così profetica.
Gli appassionati d’arte sono solo un esempio, la mania dei selfie è al centro di ogni esperienza turistica. Un viaggio sembra non avere senso se non viene condiviso in tempo reale attraverso Facebook, Twitter o Instagram. E non si tratta solo dei millennial, la generazione cresciuta con la comunicazione, i media e le tecnologie digitali. Se appena un luogo è un poco noto ci trovi persone di ogni età e delle più diverse nazionalità con il bastone da selfie proteso per realizzare la fotografia perfetta: tutte le energie sono impegnate in questo sforzo, sino quasi a dimenticarsi dove sono e perché ci sono andati.
È solo un ricordo quella sensazione di lontananza dalla propria terra e dai propri legami un tempo considerata un segreto piacere e una delle maggiori attrattive del viaggio. Il turista contemporaneo è sempre connesso e senza un buon Wi-Fi non c’è speranza di trattenere il pubblico. Un esempio? Il Mandarin Oriental Hotel di Parigi organizza escursioni con autista in auto collegate alla rete, così che nei trasferimenti tra l’una e l’altra visita si possono già postare le proprie foto.
Se tutti vogliono farsi un selfie, perché non far pagare il paesaggio? Per ora il comune di Positano, nella costiera amalfitana, ha imposto una tassa di mille euro sugli usi commerciali dell’immagine dell’antico borgo di pescatori, con le case color pastello declinanti verso il mare; l’uso strettamente privato resta gratuito, ma per quanto?
La scelta della meta spesso dipende dalla possibilità di promuovere la propria immagine. È un narcisismo a livello globale, il desiderio di mostrare a tutti cosa stiamo facendo, invece di semplicemente farlo. Il mondo diventa così uno scenario davanti al quale, con studiata disinvoltura, ci mostriamo sorridenti, coraggiosi, teneri o fighi. Al tempo stesso però rischia di andare perduto il significato profondo dei luoghi.
Guardo dei selfie scattati davanti alle Piramidi di Giza: con la loro mescolanza di grandiosità, esotismo, mistero, le piramidi sono la prima destinazione turistica del mondo e già i viaggiatori dell’antichità ne erano irresistibilmente attratti. Ma nelle fotografie in rete la loro bellezza è svilita: il disinteresse dei turisti è palese, qualunque altro luogo famoso ed evocativo andrebbe altrettanto bene.
La passione per i selfie potrebbe anche indicare una più generale tendenza a preferire le immagini alla realtà, caratteristica del nostro tempo. Alcuni esempi?
Per gestire i controlli di sicurezza di oltre ottanta milioni di passeggeri l’anno, l’aeroporto di Dubai sta costruendo per il 2018 un acquario virtuale. I passeggeri in partenza lo attraverseranno e mentre la loro attenzione sarà catturata dai pesci finti ottanta videocamere eseguiranno la scansione dei loro volti e la confronteranno con i dati disponibili. È un’idea intelligente, ma con qualche risvolto inquietante.
Anche il tempo speso in volo sarà sempre più occupato dalla visione di serie tv o di altri contenuti di intrattenimento direttamente sui propri smartphone e tablet; una delle compagnie più innovative, Virgin America, sta già muovendo in quella direzione. E su molti voli è già disponibile il Wi-Fi, cancellando così l’ultima oasi di pace tecnologica rimasta: e quindi ancora selfie, invece di guardare dal finestrino le nuvole…
Prima o poi, tuttavia, passata l’ubriacatura, dovremo accettare l’evidenza: i selfie non sono la vita, anzi dietro la loro brillante apparenza celano un senso di insicurezza, il desiderio di mostrarsi migliori della realtà, di suscitare invidia. Quando lo avremo compreso, torneremo a essere padroni dei nostri viaggi, padroni del mondo.