Clarice Lispector, riflessioni a quarant’anni dalla morte
Alcuni mesi fa Adelphi proponeva ai lettori la rinnovata versione di un’opera impossibile, vibrante e totale: Acqua viva, della ucraino-brasiliana Clarice Lispector (Chechelnyk, 1925 – Rio de Janeiro, 1977). La recente traduzione di Roberto Francavilla – che tra l’altro si è da poco occupato di un altro importante testo dell’autrice: il postumo Um Sopro de Vida (Pulsações) – consente di rinnovare l’interesse nei confronti di quella che è stata a più riprese definita, dopo Kafka, la maggiore scrittrice ebrea del ’900.
Anche se rappresenta la punta estrema di un percorso, Acqua viva è uno dei libri che bene evidenzia l’indole di una scrittura che non ha eguali: prosa senza trama, senza personaggi – se non sfuggenti, proteiformi –, si presenta come un impetuoso e controllatissimo flusso di coscienza che forza i margini del dicibile per catturare il sentire dell’essere nel tempo presente.
Ma l’operazione della Lispector non è cervellotica né intellettuale; quasi fosse in contatto con abissi di più vasto respiro, la scrittrice sembra comunicare con alterità sovrannaturali che nulla hanno da spartire con gli acrobatismi dei meri artifici letterari («Io non sono una professionista», sosteneva fermamente in una celebre intervista del 1977, «scrivo quando ne ho voglia. Scrivo da dilettante e così voglio continuare. Una professionista ha l’obbligo di scrivere verso se stessa o verso gli altri. Io ci tengo a non essere una professionista per mantenere la mia libertà»).
Clarice Lispector, che fu anche giornalista, scrisse racconti per bambini e, paradossalmente, pure alcune novelle su commissione, ottenne grandi risultati: dei suoi venti libri si citano qui il precoce Vicino al cuore selvaggio (Adelphi, 1987), i racconti riuniti in Legami familiari e in La passione del corpo (Feltrinelli, 1986 e 1987) e i romanzi ora raccolti in lingua italiana in Le passioni e i legami (Feltrinelli, 2013).
Attraverso il suo tragitto si possono azzardare alcune ipotesi sugli intenti – certo inconsci – di un lavoro volto a usurare gli impianti narrativi in virtù di un segreto che pare occhieggiare fra le parole e le cose; sì, perché è come se la voce di Clarice, costantemente, volesse andare a stanare la frattura che separa la lingua dalla materia. Quel che risulta evidente è un continuo voler afferrare una realtà inviolata, non soggiogabile alle leggi del linguaggio; e rapimento, morte e corpo sono alcune delle parole-chiave attorno a cui si coagula la ricerca di una verità che vive oltre le righe.
Se insieme ad Acqua viva si dovesse, in questo senso, indicare un capolavoro della scrittrice, un’opera in cui tale impegno ha raggiunto vette memorabili, probabilmente molti menzionerebbero anche un altro romanzo: La passione secondo G.H., del 1964.
Come un gorgo da cui si irradia il vortice del delirio, qui l’espediente narrativo è ancora presente: G.H. è una donna della agiata borghesia di Rio che, sola in casa, improvvisamente, imbattutasi in una blatta, è colta da una visitazione mistica. Entrata in contatto con l’insetto, con la sua percezione del mondo, G.H. inizia un viaggio nella propria mente; un viaggio che non è esattamente introspezione o analisi, ma piuttosto canto e amplificazione dell’evento. L’intero universo sembra spalancare le porte alle pareti della stanza e ai pensieri della protagonista; un crepaccio che ingoia tutto si dilata di pagina in pagina a ritmo vertiginoso, fino a toccare il parossismo.
Utilizzando il monologo interiore, procedendo per brevi capitoli le cui frasi conclusive si ripetono come incipit nei brani seguenti, la Lispector indaga i territori dell’estasi con esiti poetici altissimi, usando formule in cui sembrano riecheggiare le brucianti parole di Santa Teresa D’Avila: «Io ero in grembo a un’indifferenza immobile e attenta. E in grembo a un amore indifferente, a un indifferente sonno desto, a un dolore indifferente. In seno a un Dio del quale, se io l’amavo, non comprendevo cosa Egli volesse da me. Lo so, Egli voleva che io fossi il suo uguale, che a Lui io mi uguagliassi mediante un amore di cui non ero capace».
Lo stesso fuoco, la stessa passione, alimenterà altri romanzi-poemi in cui, come un’ossessione, la ricerca di un tutto irraggiungibile, di un punto di contatto totale e assoluto con un grande Altro, sembra pervadere completamente la volontà di chi scrive; è il caso di Acqua viva, ma pure, diversamente, con un sentimento di positività, di Un apprendistato o, ancora, di quell’ardente testamento che è L’ora della stella.
La riedizione di Acqua viva è un invito a riscoprire e a rileggere un’autrice straordinaria – classica ma, al contempo, eversiva e visionaria – che ha saputo innervare nella sua prosa la linfa della poesia più pura; con grande aspettativa e curiosità si resta perciò in attesa, da parte di Adelphi, della pubblicazione del suo testo più «definitivo»: il già citato Um Sopro de Vida (Pulsações).