Più di una volta, nell’ambito di questa rubrica, abbiamo delineato lo stretto rapporto che si sostanzia fra natura e letteratura. Per questo non mi sembra azzardato proporre, all’interno di questo contenitore, un libro dotato di stratificazione e complessità, che sicuramente si distanzia da quelli trattati fino ad ora ma del tutto pertinente con il tema (anzi, pare riassumerne molte coordinate emerse via via lungo il percorso).
Letteratura e ecologia, scritto dal professore di Letterature comparate all’Università di Losanna, Niccolò Scaffai, e pubblicato per la casa editrice Carocci, è un testo sulla relazione, sul rapporto che si viene a creare fra soggetto e ambiente e sulle fratture che questo stesso scambio pone in essere. Fratture che emergono soprattutto a partire dall’Illuminismo, quando il concetto di dominio dell’uomo sulla natura raggiunge il suo apice, all’indomani della scoperta che la Terra non è, come credevamo, al centro del cosmo (e verosimilmente che non vi sia nessun disegno divino atto a predisporre i rapporti fra essere umano e ambiente). Ma, superate le sirene della possibilità da parte dell’uomo di assoggettare le cose per il tramite della ragione, con il Romanticismo lo spazio naturale diventa il luogo di un dissidio, lo spazio dove si registra una perdita incolmabile.
In America, soprattutto ad opera di autori come Thoreau, poi, il verde è inteso come wilderness, il selvaggio che permette il trascendente dentro la realtà – operazione possibile mettendo in atto il semplice gesto di ritirarsi dal paesaggio urbano per fondersi con quello naturale. La natura vista come spazio buono, puro e incontaminato rispetto alla corruzione, ad opera sempre e solo dell’uomo: una prospettiva manichea non ancora superata e attorno alla quale Scaffai imbastisce ragionamenti sensatissimi.
Non è ragionevole escludere l’uomo dall’ambiente che lo abita, l’uomo stesso è natura, e lo stesso vale anche per le degenerazioni che si riscontrano nella sfera della sua azione. Per dirla con parole dell’autore, queste tendenze del pensiero ecologico contemporaneo «hanno entrambe lo stesso limite: quello di accreditare soluzioni massimaliste, negative o positive, che risolvano in un senso o in un altro la tensione che si crea tra il soggetto e l’alterità. Quella tensione, che è spesso anche la struttura conoscitiva della narrazione, va invece conservata, specialmente come funzione conoscitiva. Lo scopo della letteratura non è infatti quello di offrire soluzioni pronte, ma di individuare le contraddizioni, di rappresentare forme di relazione anche conflittuali affinando le capacità di comprenderne le cause».
Forme che spesso trovano dei punti in comune con la narrazione ecologica, la quale fa suo il paradigma dell’Apocalisse, uno fra i più fecondi stilemi dai tempi della Bibbia: se l’uomo persevererà nella sua opera distruttrice ai danni dell’ambiente, le conseguenze potrebbero essere catastrofiche. Come uscirne? Ricordando che la relazione con l’altro da me è una versione parziale della verità, che «dentro» e «fuori» sono spazi permeabili, porosi. In questo, sì – senza eccedere nelle letture ideologiche – tutta la storia della letteratura mette in scena questo dialogo, sia quando assume i connotati del conflitto sia quando assume quelli dell’idillio.
Il paesaggio, quello che accoglie il mio sguardo e decreta la presenza di un’esteriorità, è quindi – come suggerisce Scaffai a inizio libro – altamente straniante, perché frantuma le illusioni sull’io. Ha valore di rivelazione, permette la messa in questione e la successiva riformulazione del soggetto. Non è forse questo che cerchiamo (anche) nella letteratura?