Passeggiate bellinzonesi

Di quale natura sia stato il rapporto di Giorgio Orelli con la sua città d’adozione (nato in Leventina e cresciuto a Locarno, fu bellinzonese dal ’45 alla morte) è cosa che molti ricordano con piacere, anche per esperienza personale. Tra i sempre più radi passaggi in sella alla bicicletta e le lunghe soste, mezzo alla mano, a conversare con i più svariati interlocutori, si era guadagnato negli ultimi anni l’appellativo di «poeta di Bellinzona»; titolo che, senza sue colpe, avrebbe potuto conferirgli qualcosa di macchiettistico non fosse stato per i testi che, con costanza e misura, senza mai eccedere, aveva pur continuato a scrivere e ad ambientare tra le mura della turrita, davvero per lui un piccolo mondo moderno, un luogo dell’anima, l’orizzonte più prossimo di una realtà trasfigurata.
Le cinque prose raccolte da De Marchi e Terzaghi in questo libretto, pubblicato non a caso dall’editore bellinzonese per antonomasia, coprono un arco di sessant’anni ma non si discostano dal cuore di un unico problema (la messa a fuoco dell’essenza stessa di un luogo, anche nei suoi risvolti sociologici), quasi l’autore avesse continuato a ruotare per anni, come un benevolo condor, attorno alla sua città, per coglierne le più piccole sfumature e contraddizioni. Le ragioni furono per lo più occasionali: una prosa inedita per un volume miscellaneo in onore di Francesco Chiesa (1951), la prefazione a un libro fotografico di Luigi Forni (1960), un racconto di «figure» da affiancarsi alle «luci» degli acquarelli di William Turner (1978).
Quest’ultimo caso, favorito da Virgilio Gilardoni, è certo il più interessante, perché impose all’autore la riattualizzazione di una storia (Pomeriggio d’estate) già apparsa su «Palatina» nel 1959, poi in Un giorno della vita, e riscritta vent’anni dopo con notevoli differenze sin dalle prime righe: «L’altrieri la nostra piccola città pareva tutta vuota», ma prima che appaiano le biglie e la miracolosa scimmia sul portapacchi della versione originale, la Bellinzona degli anni Settanta si riempie di banche, «bisogna che qualche dì le conti, l’ultima l’hanno scavata dentro alla roccia del castello di mezzo […]. Eh finito il tempo che soldi trovavo, monete da cinque, che sembrano da cinquanta» (e chissà che l’inciso non sia stato in qualche modo intenzionale, in una pubblicazione promossa dalla Società Bancaria Ticinese…).
La città di Orelli è fitta di incontri, spesso declinati al femminile, e trapassa presto dal piano della realtà a quello dell’immaginazione, senza per questo abbandonare del tutto quelle dinamiche relazionali, di sinceri rapporti umani, così tipiche della persona dell’autore: in un’epoca segnata da sacrosante rivendicazioni di correttezza, ma anche da un po’ di isteria riflessa e collettiva, rileggere la prosa orelliana significa rimettere al posto giusto uomini e donne sul palcoscenico dei loro corteggiamenti quotidiani, in un’aura di delicato e commovente erotismo: «Ora posso interessarmi a una giovane donna che corre in bikini verso il ponte. Quasi le grido: signorina non scappi. Ma aspetto d’esserle alle spalle, con la bicicletta è un attimo, per dirle sottovoce: non scappi per carità» (p. 44).
Naturalmente la prosa di Orelli, anche da questa particolare prospettiva, geografica e sentimentale, è soltanto una delle due facce della medaglia, e sempre andrebbe integrata con la produzione in versi; non fosse altro che per cogliere, sul bordo stesso della moneta, i momenti di intersezione tra i due generi, quelle tessere lessicali e sintattiche che persino i lettori più esperti non saprebbero, a prima vista, attribuire con certezza a uno o all’altro ambito: «madri vanno a passeggio con i figli», «aggrappato a un lembo della vita», «in un poco d’erba», «uhèila giovinotto», «grigia all’altezza dei colombi». Il gioco dei rimandi tra poesia e prosa, troppo spesso considerato a scapito della seconda, erroneamente intesa quale campo di prova per quelle intuizioni che avrebbero trovato, in poesia, più nobile cittadinanza, è qualcosa di tipicamente orelliano e che ancora attende di essere scandagliato fino in fondo (la via è stata indicata da Massimo Danzi e dallo stesso De Marchi).
A questo gustoso libretto l’editore annuncia che ne farà presto seguire un altro, dedicato alla Leventina (Rosagarda), con molte pagine inedite. La notizia è senz’altro positiva, ma anche da accogliere con circospezione: il piccolo universo orelliano, dopo il convegno di studi del 2014, si mostra oggi in tutta la sua varietà e ampiezza; non sarebbe difficile produrre strenne natalizie per anni a venire, di sicuro interesse per i lettori, con il rischio però di dare di Orelli un’immagine falsata, quasi fosse stato l’autore di molti titoli e di molti libri. Forse sarebbe più utile, in prospettiva, immaginare vasti e ambiziosi progetti editoriali che, dietro l’esempio della raccolta di (quasi) Tutte le poesie apparsa da Mondadori, rimettessero in circolazione tutte le prose narrative e tutte le pagine critiche, debitamente introdotte e commentate. Parere personale, naturalmente.

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