L’ufficio come la casa

by Claudia

Tempi moderni – Decorazioni, oggetti, mobili: cresce l’attenzione per lo spazio lavorativo che tende a sovrapporsi a quello domestico

Finora era quasi esclusivamente la cornice con il ritratto di famiglia collocata in bella vista sulla scrivania. Oggi sembra imporsi un’altra tendenza: sempre di più la sede di lavoro si sta sovrapponendo all’ambiente domestico. Riceviamo in regalo un quadro? Ecco che diventa parte dell’arredamento in ufficio. Scopriamo in un negozio un meraviglioso lampadario? Starà benissimo in ufficio. Stiamo trasferendo gli oggetti, inclusi quelli affettivi, e i confort tra i più diversi, dal salotto al luogo di lavoro? Come leggere questo crescente bisogno di arredare l’ufficio, talora con priorità rispetto alla nostra dimora? Siamo insomma ancora in grado di distinguere lo spazio lavorativo dal luogo domestico oppure queste due entità si sono ormai irrimediabilmente sovrapposte?
Lo abbiamo chiesto a Graziano Martignoni, medico psichiatra e professore al Dipartimento di economia aziendale, sanità e sociale della Supsi.
Professor Martignoni come interpretare questa tendenza?
Lo sguardo sui piccoli cambiamenti della nostra vita quotidiana è utile perché ci rivela sotto traccia come stiamo abitando il nostro mondo. In questo caso non si tratta ovviamente di un fenomeno di larga scala e soprattutto generalizzabile. È rivolto soltanto a una porzione della nostra realtà sociale. Mi riferisco soprattutto al lavoro impiegatizio o dirigenziale del nuovo capitalismo cognitivo e comunicazionale molto attento alla dimensione emozionale e all’estetica della vita. In questo scenario il luogo di lavoro e la casa sono sottoposti, soprattutto nelle metropoli, all’obbligo di assomigliarsi, anche perché il tempo di lavoro e il tempo libero oramai si sovrappongono. Difficile è infatti vivere oggi un tempo veramente liberato. Ma vi è anche una seconda condizione esistenziale di cui tener conto, quella della precarietà, della mutevolezza, del cambiamento costante. Lavoro e famiglia sono oramai vittime dell’incostanza. Come difendersi da tutto ciò? Viviamo infatti tutti in una sorta di «palcoscenico sociale», che corrisponde più o meno a quella «società dello spettacolo» di cui parlava già nel 1967 Guy Debord. Lo spettacolo qui come «teatro sociale» è infatti quella dimensione nella quale non si sa mai bene se una cosa è o non è, se siamo nella realtà o nella pura illusione. I tempi che ci stanno alle spalle conoscevano un’organizzazione della vita – ad esempio dello spazio del lavoro e di quello della casa – molto più precisa. Si sapeva molto bene quando si stava al lavoro e quando si stava a casa. Perfino negli abiti: quando si tornava a casa ci si metteva altri vestiti, c’erano poi gli abiti della festa o quelli per andare a teatro. Tutto questo sembra invece oggi oramai omogeneizzato in una sorta d’indifferenziazione dei modi di vivere a cui credo appartenga in parte anche questa sorta di sovrapposizione tra il mondo della casa e il mondo del lavoro. È dunque una società del doppio o del triplo palcoscenico in cui siamo attori e vittime nello stesso tempo della grande illusione di essere in un qualche modo padroni di noi stessi e del mondo. 
Più concretamente cosa significa?
Vestire il luogo di lavoro come fosse una casa potrebbe dare l’impressione di qualcosa di certo e di continuo, anche se la realtà è ormai ben diversa. Come non ricordare le immagini degli impiegati licenziati, che escono dai loro uffici, esteticamente bellissimi, con gli scatoloni in cui presumo stiano tutti quegli oggetti che avevano dato loro la sensazione di essere a casa, protetti proprio come a casa. Ma a che cosa ci obbliga invece il mondo del lavoro di cui stiamo parlando? In primo luogo alla mobilità e al cambiamento. Al nuovo assunto viene sovente richiesta la disponibilità a viaggiare, a cambiare ruolo e funzione a volte con grande immediatezza. Allo stesso tempo, quel posto di lavoro – molto avanzato dal profilo del design, molto hi-tech – nutrirà di illusioni il proprio dipendente. Illusioni bagnate da un clima e un setting di lavoro spesso falso, di nuovo come a teatro, in cui tutto è vero e nello stesso tempo tutto è falso.
Eppure è lo stesso lavoratore a contribuire a questa decorazione degli spazi…
L’illusione non è qualcosa che viene inoculata con la forza. Basta l’inganno! Inganno condiviso, a cui il singolo individuo partecipa anche perché sul momento ne ottiene spesso un sentimento di valorizzazione personale, di benessere emozionale e soprattutto di comodità esistenziale. L’illusione di una garantita comodità socio-economica, che diventa spesso malattia quando questa si esaurisce e si svela l’inganno. Significativa la «clinica» di chi perde il lavoro, soprattutto per chi a mezza età aveva investito molto della propria vita in quel lavoro o in quella carriera. Riassumiamo. Che cosa si nasconde nel desiderio di abitare il luogo di lavoro come fosse la propria casa attorniato dagli oggetti che appartengono all’intimo della casa? La mia prima conclusione è che siamo, ragionando anche se brevemente su questi micro-fenomeni sociali, nel territorio dell’illusorio, del falso e dell’ingannevole. Viviamo in una società dell’inganno, generata dal proliferare dell’immagine, dalla scena, dallo spettacolo in cui noi non siamo soltanto spettatori o vittime, ma anche attori. È l’illusione di conservare, nell’accelerazione del tempo della vita, la vicinanza con le nostre radici che immaginiamo essere nascoste nelle fotografie dei nostri cari, nel divano di casa o negli oggetti, che i nostri amori ci hanno donato. Pensiamo a tutto ciò come fosse un pharmakon contro la durezza della quotidianità, come un antidoto ad una società, che obbliga a vincere sempre per non essere messi fuori gara. Stare nella condizione costante del movimento e del cambiamento, nell’incertezza di un posto di lavoro non più garantito, produce vertigine e a volte smarrimento, come al navigante che ha perso la rotta e la mappa cambia tutti i giorni. Quegli oggetti privati parlano di continuità e di permanenza in un mondo precario.
Questi due luoghi – casa e sede di lavoro – si stanno dunque irrimediabilmente sovrapponendo?
Oggi viviamo sempre più, soprattutto nel terziario comunicazionale, una confusione tra mondo privato e mondo pubblico, tra lavoro e libertà del lavoro. Oggi siamo chiamati ad essere sempre al lavoro. La casa è ancora (ma sino a quando?) il luogo in cui potresti spegnere i cellulari, mentre il lavoro chiede di essere sempre reperibile, disponibile. Si è dominati da quelli che io chiamo i tecno-oggetti della virtualità immateriale, i tecno-spazi dell’ovunquità, e i tecno-tempi dell’accelerazione permanente, oramai in grado di spazzare via o rendere inutili tutti i segni di un antico mondo in cui gli oggetti, gli spazi e i tempi potevano essere ancora governati dall’uomo. Quegli oggetti sulla scrivania o alle pareti dell’ufficio mi sembrano a questo punto commoventi tentativi di fermare il tempo, di dare continuità e permanenza a quello che va così veloce, di trattenere il senso di intimità, quando tutto è oramai esposto.