Per conoscersi non bastano i fatti

Non ho dati certi al riguardo, ma credo che Alberto Moravia, attualmente, non sia tra gli autori più richiesti nelle librerie e nelle biblioteche italiane. Sono certo, invece, che non figura tra i drammaturghi più rappresentati sulle scene del paese in cui è stato per decenni uno scrittore e un intellettuale importante, famoso anche fuori dei confini nazionali. Che cosa ha indotto Lorenzo Loris – interessato da sempre alla drammaturgia contemporanea – a riproporne un testo del 1986 che s’intitola L’angelo dell’informazione? Un certo peso, nella scelta, l’ha sicuramente avuto il singolare accostamento del termine «angelo» (che significa «messaggero», e reca con sé un’idea di luce, bellezza e verità) al termine «informazione», che molti oggi associano al concetto di menzogna più che a quello di verità, e che designa comunque una realtà complessa e controversa.
Ma veniamo al testo. L’immagine iniziale è quella di Matteo – giornalista e politologo – che sta battendo a macchina un articolo sulla crisi dei rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica provocata dall’abbattimento di un jumbo in acque giapponesi. Poco dopo, parlando con Dirce, sua moglie – che lui chiama «il mio angelo dell’annunciazione», sicché lei gli si presenta, la mattina, con indosso un camicione e un giglio in mano – Matteo asserisce: «Ci sono due maniere di nascondere la verità. O non dare alcuna informazione, che è la maniera, diciamo così, tradizionale. Oppure darne troppe, con tutti i mass-media di cui disponiamo, che è la maniera veramente moderna». (Nel 1986 non si parlava ancora di fake news, che sono sempre esistite, ma non proliferavano e si diffondevano col rigoglio e la velocità che sono propri della rete). La cosa certa – sostiene Matteo – è che le informazioni riguardanti avvenimenti come l’abbattimento del jumbo, per quanto numerose, non possono dirci la totalità delle concause, e men che meno l’intima verità di chi vi è coinvolto.
Questo convincimento troverà conferma anche nella sfera domestica, in seguito alla confessione di Dirce di avere un amante che si chiama Vasco e fa il pilota. Dopo i primi sussulti, dopo uno scatto di rabbia, Matteo si mostra curioso, avido di informazioni, e lei – che assicura di continuare ad amarlo – non gli lesina i particolari sulle sue performance sessuali al di fuori del matrimonio. La disinvoltura con cui Dirce descrive la fisiologia del rapporto adulterino è in stretta relazione con l’atteggiamento del marito: se in lei, infatti, c’è una vena di sadismo, in lui, sicuramente, c’è una disposizione masochistica.
Ma non si deve credere che L’angelo dell’informazione sia una commedia psicologica: qui non si danno personaggi sfaccettati, bensì posizioni dimostrative. Il lungo atto unico di Moravia è infatti un apologo dialogato – a tre voci e in tre parti – sul rapporto tra i sessi. Quali conclusioni si possono trarre (ma forse dovrei dire: quali conclusioni ho tratto) dalle parole e dai gesti del triangolo medio-borghese formato da Matteo, Dirce e Vasco? La prima è che quand’anche se ne conoscano con dovizia di particolari i comportamenti, il partner (uomo o donna che sia) rimane inconoscibile nella sua più intima realtà; ragion per cui l’assoluta trasparenza fra i componenti una coppia non è in alcun modo realizzabile.
La seconda è che le dichiarazioni d’amore e i congiungimenti carnali non possono ovviare alla sostanziale separatezza degli individui. La terza è che la gelosia di chi ha il sospetto o la certezza del «tradimento» del partner (uomo o donna che sia) non viene alimentata e acuita – almeno per quanto riguarda la maggioranza dei soggetti intellettualmente evoluti come Matteo – dalla convinzione presuntuosa di avere diritto al possesso esclusivo del suo corpo, bensì dal pensiero tormentoso e a volte intollerabile del piacere che «l’infedele» prova e procura nel rapporto fisico con un’altra persona (lo ha detto benissimo Shakespeare in Otello, e lo ha detto non meno bene Proust nella Recherche). La quarta è che tra le coppie di una certa borghesia è più facile addivenire a una strumentalizzazione concordata e reciproca dei corpi.
Lorenzo Loris non ha cercato in alcun modo di mascherare il didascalismo del testo, evidente soprattutto nella prima e terza parte: quelle cioè in cui Matteo e Dirce intessono un dialogo serrato fatto prevalentemente di domande e risposte che a tratti possono sembrare pornografiche. Non ha cercato neppure di alleggerirlo, chiedendo agli attori (Antonio Gargiulo, Silvia Valsesia e Daniele Gaggianesi) di essere quanto più possibile sciolti, naturali (come lo furono, nel 1986, Giorgio Albertazzi e Ombretta Colli nei ruoli di marito e moglie). Ha voluto invece evidenziarlo, e direi quasi esaltarlo attraverso una recitazione dai toni assertivi e a voce alta, che a volte produce effetti volutamente comici, e più spesso si lascia sfuggire le occasioni di sottile ironia che il testo offre non di rado.

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