Via le maschere e basta improvvisare!

Il teatro comico è una commedia che Goldoni concepì come «prefazione» (la definizione è sua) a quelle che si era impegnato a scrivere – e che di fatto scrisse, in numero di sedici – per la compagnia veneziana di Girolamo Medebach, nella stagione 1750-51.
Si tratta di una vera e propria commedia-manifesto, in cui un capocomico e i suoi attori – che stanno provando il terzo atto di una farsa intitolata Il padre rivale del figlio – discutono fra loro delle novità introdotte dalla «riforma» goldoniana, cioè del passaggio dalla commedia «a soggetto» alla commedia «premeditata», ovvero dalla Commedia dell’Arte alla commedia «di carattere». Nella discussione intervengono anche un poeta dilettante, Lelio (il quale propone una commedia a soggetto che il capocomico rifiuta) e una «virtuosa di musica», Eleonora, rimasta senza lavoro in seguito al fallimento del suo impresario. Sia Lelio che Eleonora saranno accolti come attori nella compagnia di Orazio (così si chiama il capocomico) per completare l’organico necessario alla rappresentazione delle commedie di carattere.
Fra gli aspetti in discussione della commedia «riformata», i più rilevanti sono: a) la sostituzione dei canovacci della commedia «all’impronta» con copioni interamente scritti da mandare a memoria; b) la necessità di un intreccio ben costruito che non pecchi di inverosimiglianza; c) l’abolizione delle maschere e dei ruoli fissi per lasciare il campo a personaggi realisticamente individuati; d) una recitazione naturale (priva cioè di intonazioni e gesti artificiosi) e concertata con rigore.
Questa breve elencazione può destare il sospetto che Il teatro comico sia un noiosissimo saggio di metateatro didascalico. E invece si tratta di un’opera vivace, che oltre ad essere una dichiarazione di poetica ci ragguaglia con umanissima ironia, e anche con schietta comicità, su vizi, vezzi, consuetudini e difficoltà dei teatranti dell’epoca.
Poiché lo spazio per le prove e il debutto dello spettacolo era la sede storica del Piccolo Teatro (produttore dell’allestimento), al regista Roberto Latini è parso inevitabile pensare a un pubblico che avesse visto non solo il celebre Arlecchino servitore di due padroni, ma anche altri spettacoli inscenati da Giorgio Strehler. Dal sipario ancora chiuso, ecco quindi sbucare un Orazio-Arlecchino (Roberto Latini) che fronteggiando gli spettatori rielabora il lazzo della mosca (un pezzo di bravura che fu prima di Marcello Moretti e poi di Ferruccio Soleri). Andando avanti, ecco le silhouette degli attori campite su un fondo luminoso come nel Così fan tutte; le voci registrate di Tino Carraro e Giulia Lazzarini nella scena shakespeariana in cui Ariele riferisce a Prospero di come ha scatenato una tempesta; il richiamo all’arsenale delle apparizioni e ai fantocci dei pirandelliani Giganti della montagna.
Intervistato, Roberto Latini ha detto: «Il livello meta-teatrale che vorrei aggiungere al Teatro comico contiene il meta-teatro venuto dopo, che non possiamo dimenticare e far finta che non sia esistito». Citare Strehler era dunque necessario ma non sufficiente. Ecco allora la pedana in bilico (disegnata da Marco Rossi), che è un’allegoria dell’incertezza legata al passaggio dalla Commedia dell’Arte alla commedia di carattere; ecco la statua eretta e poi abbattuta di Arlecchino (un colossale manichino da crash test), le cui membra disgiunte, nella seconda parte dello spettacolo, vengono portate in processione dagli attori alla ricerca di una recitazione meno stereotipata e artificiosa; ecco Orazio-Arlecchino colpito da uno sparo e Orazio-Arlecchino che si racconta al microfono; ecco la rigida Rosaura mascherata di Elena Bucci e l’altezzosa Eleonora interpretata en travesti da Marco Grosso (che è anche Tonino e Pantalone); ecco l’inopinata comparsa in terra veneta della maschera di Pulcinella, assunta da Lelio (Marco Marchisi), che a un certo punto scambia ingiurie scurrili in dialetto napoletano con la virtuosa di musica (una scena, a mio parere, ispirata a La gatta Cenerentola di Roberto De Simone); ecco i costumi a rovescio di Gianluca Sbicca, e il trascolorare delle luci calde e fredde di Max Mugnai, e la colonna sonora di Gianluca Misiti, col leit motiv da lui composto, e due brani di Zbigniew Preisner, e un tappeto di suoni e rumori.
L’enumerazione potrebbe continuare a lungo. Il regista ha dichiarato: «Quello che m’interessa non è rappresentare un testo di Goldoni, ma fare uno spettacolo attraverso Goldoni». Purtroppo, Roberto Latini non è Leo De Berardinis (geniale contaminatore di linguaggi di cui si coglie in più punti l’influenza). Attraverso un’intellettualistica operazione di accumulo, che fa continuamente l’occhiolino agli addetti ai lavori, la limpida, vitale dichiarazione di poetica di Goldoni è diventata uno sterile, uggioso pasticcio. (La sera della prima per la stampa, durante l’intervallo, il giudizio di un gruppo di studenti delle superiori presenti nel foyer era concorde: «Non si capisce niente»).

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