C’è un filo che lega la cacciata del segretario di Stato americano Rex Tillerson, e l’offensiva protezionista che Trump ha avviato contro il resto del mondo. Tillerson era stato chief executive della compagnia petrolifera Exxon, era quindi un pezzo di establishment capitalistico «prestato» alla Casa Bianca. L’innesto è andato male, come peraltro era successo all’ex presidente di Goldman Sachs, Gary Cohn, anche lui dimissionario perché contrario ai dazi e alle guerre commerciali.
La goccia finale è stato l’Iran, almeno a sentire Trump. Il presidente ha spiegato la cacciata del suo segretario di Stato così: «Io penso che l’intesa sul nucleare con l’Iran sia terribile, a lui andava bene. Io voglio cancellarla o rifarla, lui aveva idee diverse». Di certo una divergenza sull’Iran è importante, ma in realtà era solo uno dei tanti conflitti tra il presidente degli Stati Uniti e il «presunto» capo della sua diplomazia. Tillerson proponeva una linea più moderata, tradizionalista, Trump lo sconfessava brutalmente con degli strappi continui. Sul ruolo della Nato o sui rapporti con Vladimir Putin, per esempio, Tillerson ha cercato di rassicurare fin dall’inizio gli alleati storici, mentre Trump li spaventava con i suoi attacchi e la minaccia di non difendere paesi che non spendono abbastanza per il bilancio militare. Sul Medio Oriente o sulla Corea, Tillerson ha tentato di salvare qualcosa della politica estera obamiana mentre Trump la demoliva con la forza di una ruspa. Sulla Corea alla fine Trump gli ha dato implicitamente ragione accettando l’incontro con Kim, però si è ben guardato di dare atto che Tillerson era stato il fautore del dialogo; inoltre il presidente si è buttato a capofitto nell’accettare l’invito nordcoreano senza minimamente consultare i diplomatici esperti dell’area. Paradossalmente, anche se Tillerson è un petroliere (ha fatto tutta la sua carriera come top manager della Exxon) perfino sugli accordi di Parigi per la lotta al cambiamento climatico, il segretario di Stato avrebbe avuto una posizione meno negazionista e più conciliante del suo capo. Ma anche la questione del protezionismo ha pesato, perché su quel terreno le multinazionali Usa sono in totale disaccordo con questo presidente.
I dazi americani rimangono, del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio: anche quelli provenienti da paesi europei. Nessuna concessione all’Europa, malgrado la partnership strategica e le alleanze militari. Trump ha parlato a telefono con il presidente francese Emmanuel Macron – che in questo caso si è fatto portavoce dell’Unione intera – e con il premier giapponese Shinzo Abe. Gli scambi sono stati duri. Al premier nipponico Trump ha rinfacciato un deficit bilaterale di 100 miliardi di dollari che ha definito «iniquo e insostenibile, un problema a cui bisogna trovare soluzione». Macron a sua volta ha detto al presidente americano: «Noi rispettiamo le regole del commercio mondiale. L’Unione europea risponderà in modo proporzionale ad ogni azione unilaterale». Va ricordato che invece l’Amministrazione Usa aveva subito esentato Canada, Messico, Australia. Perché la loro «amicizia» vale più di quella europea? Nel caso di Canada e Messico c’è una spiegazione legata al Nafta: è in corso il negoziato per riformare le clausole del mercato unico nordamericano e Trump ha sospeso i dazi per usarli come uno strumento di pressione a quel tavolo. Non si capisce invece perché l’Australia abbia un rango di alleato superiore a quello degli europei. È pronto l’arsenale delle ritorsioni europee che colpirebbero importazioni made in Usa quali le moto, i jeans, il burro di arachidi. L’export UE di acciaio verso gli Stati Uniti vale 5,3 miliardi di euro all’anno, quello di alluminio 1,1 miliardi.
Una possibile via d’uscita da questa impasse: gli europei faranno proposte su come «uscire dalla situazione di sovraccapacità mondiale» e adottare «regole più severe contro i sussidi e le pratiche distorsive della concorrenza». Su questi temi però la pressione dovrebbe spostarsi sulla Cina: è lei che concentra la massima sovraccapacità produttiva nell’acciaio e nell’alluminio, e pratica da sempre aiuti di Stato e dumping (vendita sottocosto).
Gli investitori non sono del tutto convinti che siamo al capolinea della globalizzazione. Nel mondo del business c’è la speranza che il protezionismo di Trump si possa smussare, attenuare. Le lobby industriali americane contrarie ai dazi (sono la maggioranza) studiano la possibilità di bloccarli in sede giudiziaria. Anche al Congresso i repubblicani contrari al protezionismo si stanno muovendo: è un senatore del partito del presidente, Jeff Flake, il primo a presentare un disegno di legge per svuotare la mossa dei dazi. Tenuto conto che alla vigilia della firma del decreto protezionista più di cento parlamentari repubblicani avevano firmato un appello al presidente contro i dazi, non si può escludere che proprio dentro il Grand Old Party si stia organizzando una resistenza efficace. Tradizionalmente è tra le file dei repubblicani che aveva messo radici più profonde il pensiero neoliberista, contrario alle barriere commerciali.
È sulle colonne del «Wall Street Journal» – conservatore ma liberista – che si leggono gli attacchi più pesanti contro questa mossa del presidente. Un editoriale paragona i dazi su acciaio e alluminio alle leggi protezioniste che durante l’Amministrazione Hoover contribuirono a precipitare la Grande Depressione degli anni Trenta. Un editorialista autorevole come Greg Ip ridicolizza la giustificazione del protezionismo legata alla sicurezza nazionale con questa osservazione: Trump ha detto che vuole preservare la produzione nazionale di alluminio perché serve a fabbricare navi da guerra e aerei militari, ignorando che per produrre alluminio occorre la bauxite e l’America la importa al 100% dall’estero.
La rivolta in seno al partito repubblicano e l’opposizione delle multinazionali hanno una spiegazione che risale alle origini di questa fase della globalizzazione: quando nasce la World Trade Organization (Wto) nel 1999 e due anni dopo viene cooptata al suo interno la Cina, gran parte dell’industria americana è felice di concedere ai paesi emergenti come Cina e India delle condizioni agevolate e asimmetriche, perché le multinazionali scommettono sulla delocalizzazione. Oggi se Trump dovesse estendere i dazi a settori davvero strategici come l’informatica, tasserebbe gli iPhone di Apple tutti fabbricati a Shenzhen. Compresi quelli che si vendono qui in America. Altro esempio significativo riguarda l’industria dell’automobile. Trump ha ricordato – giustamente – che la Cina impone sulle auto made in Usa dei dazi che sono il decuplo rispetto a quelli reciproci (25% contro il 2,5% sulle auto cinesi vendute negli Stati Uniti). Vero, ed è uno dei tanti esempi di asimmetrìe. Ma fin dall’inizio le case automobilistiche americane decisero di andare a produrre in Cina, su quel mercato General Motors e Ford hanno fatto ricchi profitti. Non hanno interesse a rimettere in questione un assetto di regole che a loro ha giovato.
Per gli europei invece l’Amministrazione Trump continua a ripetere: ogni governo è libero di fare lobbying per conto proprio per tentare di dimostrare che è un buon alleato e che le sue esportazioni di acciaio non ledono gli interessi nazionali e la sicurezza degli Stati Uniti. Peccato che «ogni singolo governo europeo» non sia affatto libero di negoziare accordi commerciali separati con gli Stati Uniti.
All’interno degli Stati Uniti non si è capito quanto sia illegittimo, dirompente, l’approccio che offre «clemenza» ai paesi europei, singolarmente presi, qualora dimostrino: 1) che stanno facendo abbastanza per la difesa comune (leggi: bilancio Nato) e 2) che le loro esportazioni di acciaio e alluminio non fanno concorrenza a produttori americani nei tipi di metalli che vengono usati per la produzione di armamenti.
La stragrande maggioranza degli osservatori americani non capisce un pilastro dell’Unione europea. Fin dalle origini, quando ancora la chiamavamo Mercato comune oppure Comunità europea, si fondò sul principio che un grande mercato unico deve avere una sola politica commerciale verso i paesi terzi, il resto del mondo. Guai se l’Italia o la Francia o la Germania si mettessero a negoziare dazi e accordi commerciali in proprio, con gli Stati Uniti o con la Cina. Questo compito spetta alla Commissione europea che negozia condizioni applicabili a tutti gli Stati membri.
Ignoranza, incompetenza, o calcolo? Questa è una domanda importante. Trump è un dilettante, può benissimo ignorare l’abc dell’Unione europea.
Meno scontato è il fatto che i suoi consiglieri lo ignorino, così come gran parte dei soggetti che sono intervenuti in questo dibattito all’interno degli Stati Uniti. Viene il sospetto che ci sia, almeno da parte di alcuni, un vero e proprio calcolo. L’ideologia «sovranista» di cui è impregnato il trumpismo, è ostile alle organizzazioni sovranazionali come l’UE. Agli strateghi del trumpismo, e al presidente stesso, non dispiacerebbe sfasciare l’Unione. Anche perché l’approccio delle trattative bilaterali, tra gli Stati Uniti e ogni singolo paese che vada a supplicare clemenza, sconvolge i rapporti di forze. Un conto è negoziare con l’America a nome dell’intera Unione, un insieme che ha forza economica paragonabile o superiore. Altra cosa è negoziare in ordine sparso: ogni nazione europea è molto più debole, se presa da sola, rispetto agli Stati Uniti.
Questo vale in linea generale, non solo nei rapporti tra le due sponde dell’Atlantico. Dalla creazione del Wto, gli Stati Uniti sotto presidenze democratiche e repubblicane avevano accettato di essere leader e registi di una globalizzazione improntata di multilateralismo. Un’architettura dove le regole vengono concordate attorno a un tavolo comune, non in tanti bracci di ferro tra l’America e i singoli paesi.