Il vecchio deputato afroamericano John Lewis, figura leggendaria delle battaglie per i diritti civili e amico personale di Martin Luther King, traccia un parallelo tra le manifestazioni dei giovani americani contro la follia delle armi e il Sessantotto. Senza voler cadere in euforie premature (anche perché il vero Sessantotto americano ebbe poi esiti non tutti desiderabili, dalla spirale di violenze all’elezione di Richard Nixon) un dato di quest’epoca è la rinascita dei movimenti. Nel giro di pochi anni abbiamo visto BlackLivesMatter contro gli abusi della polizia sui neri, poi #MeToo contro le molestie sessuali alle donne, infine questo #NeverAgain per limitare le armi. E vanno ricordati un «antenato», influente anche se di breve durata, che fu Occupy Wall Street (senza il quale non avremmo avuto una candidatura di Bernie Sanders); nonché le manifestazioni pacifiste contro l’invasione dell’Iraq nel 2003.
Il riferimento all’eredità di Martin Luther King Junior è obbligato: nessun altro seppe organizzare le masse per una protesta così ampia. È il 4 aprile di cinquant’anni fa che morì assassinato il leader del movimento dei diritti civili. Il Gandhi o il Nelson Mandela dei neri americani. King, un gigante della storia a cui oggi è intitolata una festa nazionale e monumenti in tutta l’America, da vivo era stato schedato e spiato dall’Fbi. Il giorno della morte aveva solo 39 anni. L’omicida, James Earl Ray, era un suo coetaneo bianco e razzista, seguace del repubblicano di estrema destra George Wallace. Colpì King sparando con un fucile Remington, mentre il pastore afroamericano era affacciato sul terrazzo del Lorraine Motel a Memphis nel Tennessee, uno Stato del profondo Sud dove erano state in vigore le leggi segregazioniste. Quell’attentato mortale inaugurava il sanguinoso Sessantotto degli americani, molto più violento di quello europeo. L’assassinio di King avveniva sullo sfondo dell’offensiva del Tet, una delle fasi più terribili della guerra del Vietnam. Subito dopo la sua uccisione scoppiarono rivolte sanguinose nei ghetti neri delle città americane. Il paese sembrava scivolare verso una guerra civile. Tre mesi dopo veniva ucciso Bob Kennedy. E d’estate la convention democratica di agosto a Chicago fu assediata dalla guerriglia urbana.
Oggi le celebrazioni per il cinquantesimo della scomparsa di King, il bilancio storico della sua figura e della sua opera, risentono inevitabilmente dell’atmosfera presente. Nell’America di Donald Trump, che ha un seguito di suprematisti bianchi e ha sdoganato il Ku Klux Klan, la comunità afroamericana e la sinistra hanno l’impressione di vivere un pauroso balzo all’indietro. Gli anni di Barack Obama appaiono come una parentesi anomala, la breve illusione di avere superato la questione razziale. Peraltro già durante la presidenza Obama era nato il movimento BlackLivesMatter per opporsi alle violenze della polizia contro i neri. E non è chiaro se gli abusi delle forze dell’ordine siano addirittura aumentati, o se oggi è più viva l’attenzione e quindi la denuncia.
In questo pessimismo c’è il pericolo di perdere il senso della storia, di non valutare il progresso reale che c’è stato. In cerca della prospettiva giusta sono andato ad Atlanta in Georgia. Qui King era nato, aveva studiato e predicato in chiesa, la sua famiglia continua a viverci oggi. Ho visitato la casa dov’era cresciuto; il King Center che custodisce la sua eredità politica e ideale; l’università dove si laureò; la chiesa di cui era pastore. Atlanta è un osservatorio importante per tante ragioni. Una delle capitali storiche del Sud, è una metropoli ricca, sede di multinazionali come Coca Cola, la compagnia aerea Delta, la tv Cnn. Di questa prosperità è partecipe anche un pezzo della comunità afroamericana: esiste una borghesia nera medio-alta, benestante e di successo, politicamente potente, non diversa dall’ambiente sociale dei «nordici» Obama a Chicago. È proprio da lì che comincio la visita, quando incontro Andrew Young, 85 anni, che fu uno dei più fedeli amici e compagni di lotte di King. Ex sindaco di Atlanta, Young fu il primo nero nominato ambasciatore degli Stati Uniti all’Onu (da Jimmy Carter, nel 1977). Un pioniere, spianò la strada all’ascesa politica di personaggi come Colin Powell, Condolezza Rice, o gli Obama. A lui faccio subito la domanda scomoda: perché Trump ha potuto «cancellare» Obama? E quel che accade oggi svaluta anche l’eredità del movimento per i diritti civili? «Obama – mi risponde Young – ha potuto conquistare la Casa Bianca capitalizzando sulla figura di King, le cui conquiste storiche non si cancellano. Ma al tempo stesso Obama ha spaventato una parte dei bianchi. C’è un pezzo d’America che si è sentito insicuro di fronte allo spettacolo di un nero troppo bravo, troppo competente. La vendita di armi in questo paese ha toccato un massimo storico proprio durante la presidenza Obama».
A non perdere di vista il cammino percorso, e l’importanza di King, mi aiuta un suo omonimo che ne seguiva le prediche nella chiesa di Atlanta, un ex soldato della U.S. Army (oggi ultranovantenne) che fece in tempo a servire la patria nell’ultimo scorcio della seconda guerra mondiale. «Sì, porto un cognome identico ma non sono un parente – mi dice Howard O. King – e io ad Atlanta ci arrivai adulto, ero nato in Florida. Quello che il reverendo riuscì a fare fu rivoluzionario. Ancora negli anni Sessanta in una parte degli Stati Uniti la discriminazione contro di noi era legale. Quel giovane sacerdote nero fu capo di un movimento che cambiò le leggi della nostra terra. Ha influenzato tutta la mia vita. Ero un reduce di guerra, ero stato di stanza nel Pacifico, a un’epoca in cui noi eravamo esseri umani di serie B anche sotto le armi. Ci avevano mandato a combattere per la difesa di valori, diritti umani, libertà, che a casa nostra non ci erano concessi. Quando mi trasferii a vivere ad Atlanta nel 1965 c’erano ancora delle barriere, fisiche e legali, che c’impedivano l’accesso a certi luoghi pubblici. Tutto questo appartiene al passato, e il suo ruolo è stato essenziale per voltare pagina».
La tappa seguente è il Morehouse College, l’università dove King si era laureato. Un’istituzione speciale, della categoria che viene definita Historically Black University: ateneo per neri. Fondato nel 1867 a un’epoca in cui Harvard, Yale e quasi tutte le università a loro erano sbarrate. Alla direttrice della Biblioteca King custodita nel college, Vicki Crawford, chiedo qual è secondo lei l’eredità più importante che ci ha lasciato. «Il suo discorso più attuale – risponde la Crawford – è quello sui tre grandi mali da debellare: guerra, razzismo, povertà. Lui non si occupò solo dei neri d’America, ma di ingiustizie planetarie. Guidò la protesta contro la guerra del Vietnam». La fine delle leggi razziali, la de-segregazione, è un passaggio di civiltà, certo. Lo firma il presidente Lyndon Johnson col Civil Rights Act del 1964. Ma obietto: a Manhattan dove io vivo, in una città che si definisce progressista e ha votato al 70% contro Trump, i figli dei ricchi frequentano costosissime scuole private dove sono quasi tutti bianchi, mentre certe scuole pubbliche sono «di fatto» per i bambini di colore. «La sua battaglia – mi dice la Crawford – non è mai conclusa, tanti dei problemi che denunciava King rimangono, la segregazione ha una dimensione economica. Assistiamo anche a tentativi di indebolire il diritto di voto, soprattutto al Sud, moltiplicando gli ostacoli per i neri. E poi c’è la crociata contro gli immigrati. Ma io che ho compiuto 59 anni, quando parlo coi giovani cerco di non perdere di vista il cammino percorso. Atlanta oggi è una città molto più multietnica di quando ero bambina. La violenza degli anni Sessanta era tremenda, e non solo in America. Ricordo che quando andò a ricevere il Nobel per la pace nel 1964, King fece tappa a Londra per una manifestazione contro l’apartheid in Sudafrica, una delle vergogne di quel tempo».
Cinquant’anni dopo abbiamo un’immagine troppo edulcorata di King. Uno studente del Morehouse College, Ryan Russell, ne è convinto: «Ormai la sua storia viene insegnata anche al liceo. Ma è la versione annacquata, del santino che va bene a tutti. Ci siamo dimenticati che alla vigilia dell’assassinio il reverendo per le sue campagne contro la guerra del Vietnam e contro la povertà era l’uomo più odiato d’America. In quanto ai miei coetanei, agli afroamericani della mia generazione, mi chiedo se sarebbero pronti a riscoprire i messaggi più scomodi di King. Come la sua battaglia contro il consumismo, contro il materialismo».
Il successo delle manifestazioni contro le armi, ottocento in tutte le città americane, è merito dei giovani. È la prima volta che loro prendono la testa di questa battaglia, e il risultato è impressionante. La scia delle sparatorie e delle stragi è antica, il primo massacro «scolastico» a entrare negli annali fu Columbine, ormai quasi vent’anni fa. Tentativi di reagire sul fronte legislativo ce ne sono stati tanti, regolarmente sventati dalla resistenza della lobby delle armi. Alla fine era proprio la temibile National Rifle Association a prevalere per tenacia e perseveranza: passata l’emozione, il lutto e il dolore, ogni volta i veti degli armaioli avevano la meglio. Il segreto della lobby armata è quello che sembrano aver capito finalmente i giovani: bisogna durare, e bisogna pesare alle urne. Nei volti e nei discorsi degli adolescenti che hanno preso la parola il 24 marzo in tutte le piazze degli Stati Uniti, c’era la convinzione che questo deve essere un movimento politico, e un riferimento costante alle elezioni legislative di mid-term a novembre. Noi non votiamo ancora – hanno ripetuto molti di questi giovani – ma vigileremo sul voto degli adulti intorno a noi.
Il libro di King che ci interpella tuttora ha questo titolo: Dove andiamo da qui: il Caos o la Comunità?