Kendrick e le nuove regole del gioco

by Claudia

Il grande rapper si aggiudica il Pulitzer

Mentre alle nostre latitudini, dopo un recente concerto del trapper italiano Sferaebbasta, si discuteva se fosse il opportuno che i nostri figli ascoltassero musica rap (e per l’occasione si erano scomodati psicologi ed opinionisti), dall’altra parte dell’Oceano la giuria di uno dei premi più prestigiosi del mondo decideva – finalmente – di aprire a un rapper le porte di un olimpo intellettuale per antonomasia. La notizia non ha mancato di suscitare clamore e in pochi istanti ha fatto il giro del mondo: dopo decenni in cui il Pulitzer per la musica, istituito nel 1943, è stato assegnato a mostri sacri come Bob Dylan o Duke Ellington, premiando composizioni legate ai mondi della classica, anche sperimentale e del jazz, quest’anno per la prima volta si è riconosciuta la validità, soprattutto dei contenuti (per quella musicale ci vorrebbe, a nostro avviso un altro premio), di un genere musicale da molti non ancora considerato tale. E questo sebbene il rap, nato nel 1973, abbia fatto da colonna sonora a più di una realtà sociale e politica, arrivando anche ad avere un controverso ruolo di primo piano durante i disordini di L.A.
Come ha dichiarato la giuria del Premio Pulitzer, al giovane e minuto Kendrick Lamar (classe 1987!) spesso associato al movimento per le minoranze afroamericane blacklivesmatter), con l’album Damn (uscito nell’aprile del 2017, v. «Azione» dell’8 maggio 2017) è riuscita «una virtuosa collezione di canzoni accomunate da un linguaggio autentico e da un dinamismo ritmico che offre istantanee toccanti, capaci di rendere la complessità dell’attuale vita degli afroamericani». K.Dot, come viene comunemente chiamato, poiché di cognome fa Duckworth, si discosta dai colleghi rapper e trapper alla stessa stregua di Eminem (per il quale Seamus Heaney qualche anno fa aveva proposto il Nobel) anche se per motivi diversi. Pur apparendo in molti featuring, Lamar è lontano dai social, dagli eventi mondani, dalle collane d’oro e da donne troppo vistose, preferendo di gran lunga concentrarsi su una ricerca continua che lo vede sondare i difficili territori del funk, del jazz e del soul, senza per questo abbandonare le sue radici rap.
Prima del Pulitzer, della grandezza di K.Dot avevano parlato anche David Bowie e Barack Obama, indicandolo come un artista di riferimento che nei suoi testi, in cui si mescolano concetti come preghiera e umiltà, ma anche riflessioni intime con i suoi, i nigga, parla in realtà a tutti noi, trascinandoci in un vortice ritmico dalla potenza indiscussa. Forse è difficile da accettare, ma con tutta probabilità siamo di fronte al vero cantautorato (e di valore) del nuovo millennio.