Carta geopolitica della Terra – I cinque punti del pianeta ai quali guardare per capire come vanno le crisi decisive: Taiwan, Kaliningrad, Gibuti, Yokosuka e Canale di Sicilia
Da dove guardare il mondo per coglierne le macrodinamiche geopolitiche?
Nell’ultimo volume di «Limes», appunto dedicato allo «stato del mondo», si propongono cinque luoghi topici, che illuminano alcune delle principali crisi in corso. Perché nulla è meno statico del mondo, e nulla cambia di più a seconda del punto di vista dell’osservatore. E naturalmente della scelta di proiezione e scala geografica, da sempre piegate all’impresa impossibile di schiacciare le tre dimensioni fisiche del pianeta sul piano. Sicché, ad esempio, ciascun paese tende a collocarsi al centro del planisfero. E mentre un europeo opterà per qualche variazione sulla classica proiezione di Mercatore, un africano preferirà la meno classica carta di Peters, che accentua il profilo dell’Africa quasi fosse, appunto, il centro di tutto.
Con queste premesse, ecco i cinque topoi scelti, a puro titolo di provocazione intellettuale, speriamo non totalmente infondata: da est a ovest, Yokosuka (Giappone), Taiwan, Gibuti, Kaliningrad (Russia) e Canale di Sicilia. Vediamo perché.
Yokosuka è il quartiere generale della Settima Flotta della Marina statunitense, la più robusta e moderna armata aeronavale del pianeta, avamposto dell’impero americano nell’immenso spazio dell’Indo-Pacifico (o Asia-Pacifico, come si preferiva dire qualche anno fa). È insomma la massima sede operativa dello strumento militare a stelle e strisce, fondamento dell’impero americano. Impero informale, peculiarissimo, che non si dà limiti (il presidente Kennedy stabilì che gli interessi degli Usa non conoscono confini, ed è tuttora vero), e che oggi si sente sfidato dalla Cina. Ora, il teatro principale di tale sfida è proprio lo spazio Indo-Pacifico. Dove si trovano i Mari cinesi, sulla cui titolarità e/o internazionalità litigano tutte le potenze e persino i paesi minori della macroregione compresa fra India e Giappone. Con gli Usa a vegliare sulla disputa e a cercare di contenere le ambizioni dell’Impero del Centro, che parrebbe deciso ad espandersi in quei decisivi spazi oceanici.
Eccoci allora a Taiwan. Questa isola, già nota come Formosa, è la posta in gioco e la misura del confronto Usa/Cina, cui partecipa in modo sempre più attivo e indipendente il Giappone, dotato della seconda flotta al mondo e proiettato a recuperare i vecchi istinti imperiali che lo portarono alla catastrofe del 1945. Per Pechino Taiwan è provincia ribelle, che deve rientrare prima o poi sotto la potestà della Repubblica Popolare. Sotto Xi Jinping si esplicita persino l’ipotesi di riconquista militare. Il che renderebbe quasi inevitabile lo scontro con gli Usa e con il Giappone. Washington si attiene agli equilibrismi diplomatici della «One China», ma con Trump riaffiora la tentazione di sostenere le velleità di Taiwan di dichiararsi indipendente (una seconda Cina). Oggi lo è di fatto, domani potrebbe volerlo diventare di diritto. Ma in caso di proclamazione di indipendenza da parte del governo di Taipei, Pechino passerebbe subito alle armi.
La sfida sino-americana prosegue lungo le vie della seta, il mastodontico quanto indefinito progetto cinese di globalizzazione con gli occhi a mandorla. Apparentemente commerciale, di fatto geopolitico. Si tratta di espandere i traffici asiatico (sino)-europei varando nuove rotte marittime con relativi perni portuali, costruendo infrastrutture terrestri (ferrovie, autostrade), ma anche basi militari. Sicché la prima base delle Forze armate cinesi all’estero è stata di recente inaugurata a Gibuti. Siamo all’ingresso dello Stretto di Bab al-Mandeb, che porta al Mar Rosso e di qui al Mediterraneo, dunque postazione strategica delle vie della seta. Gibuti, staterello grande come la Lombardia, già pezzo di impero francese (Territorio degli Afar e degli Issa), vanta oggi, anche per reazione alla presenza cinese, la massima concentrazione di basi militari straniere, l’una vicina all’altra: americana, francese, giapponese, italiana, saudita (in costruzione). Altre verranno.
Saltiamo di mare e approdiamo sul Baltico, dove giace Kaliningrad, l’ex prussiana Königsberg, annessa dai sovietici nel 1945. Dopo il crollo dell’Urss, Kaliningrad è assurta a exclave della Federazione Russa, circondata dai nemici della Nato. In seguito alla guerra in Ucraina (in atto dal 2014), lo scontro fra Nato e Russia ha ripreso dimensioni pericolose, difficilmente controllabili. In questo contesto la concentrazione di armamenti russi nel fortilizio di Kaliningrad è un chiaro segnale a Washington: guai a chi la tocca.
Infine rigettiamoci nelle acque calde del Mediterraneo. Osserviamo come il Canale di Sicilia, che divide l’Europa dall’Africa, e più specificamente l’Italia dalla Tunisia e da ciò che resta della Libia, sia da anni il passaggio tragicamente preferito dai migranti che vogliono saltare da un continente povero, in esplosione demografica e in decomposizione istituzionale, oltre che afflitto da decine di conflitti, alla nostra Europa. In quest’area di mare pattugliata dalla Marina italiana e da altre Marine, alcune piuttosto informali (ad esempio la libica, per tacere delle flottiglie criminali o delle Ong), passa ogni genere di traffici. Talvolta in connessione con le reti criminali italiane ed europee, cui capita che alcuni «imprenditori» in cerca di semischiavi si rivolgano per incrementare i profitti.
Altri punti potremmo aggiungere a completare lo sguardo alla carta geopolitica della Terra – e soprattutto dei mari. Ma partire da questi cinque permette di cogliere la temperatura di un pianeta dove la storia ha ripreso a correre, forse perché per qualche tempo l’avevamo battezzata morta.