I fronti caldi di Trump

by Claudia

Politica estera – americana In Medio Oriente si profila l’asse Usa-Israele-Arabia Saudita in chiave anti-Iran, mentre rischia di saltare il vertice di Singapore del 12 giugno con la Corea del Nord

L’inaugurazione della nuova ambasciata americana a Geruslamme la scorsa settimana ha segnato il trionfo di Benjamin Netanyahu. Ed è «un’altra promessa mantenuta», per il presidente degli Stati Uniti. Forse prelude all’apertura di un nuovo capitolo nella storia del Medio Oriente, con l’asse Usa-Israele-Arabia Saudita che vuole trasformare in profondità i rapporti di forze nell’area, e andare alla resa dei conti contro l’Iran. Non solo per il governo Netanyahu ma anche per una maggioranza degli ebrei israeliani, e per la Casa Bianca che ha voluto dare questo segnale forte, lo spostamento dell’ambasciata da Tel Aviv è un atto dovuto, è il riconoscimento di una realtà.
Ha coinciso però con una terribile strage a Gaza, dove alle proteste dei palestinesi i militari israeliani hanno risposto col fuoco: il bilancio finale sfiora i 60 morti e duemila feriti. Di qui il coro di critiche dei media americani, compreso l’editoriale della direzione del «New York Times» dal titolo inequivocabile: «Hai allontanato la pace». Ricorre in tutte le analisi e gli scenari questa contraddizione: Trump ha mostrato una coerenza totale, ha realizzato una promessa elettorale, ma la sua strategia incendia il Medio Oriente.
La risposta della Casa Bianca a queste critiche è identica a quella di Netanyahu. Le proteste si limitano a Gaza – fanno notare i collaboratori di Trump – mentre da Gerusalemme Est alla Cisgiordania non vi sono segnali di una Terza Intifada. Sempre le stesse fonti americane sottolineano l’isolamento palestinese (in particolare Hamas-Gaza) rispetto ai sostenitori di una volta, non solo l’Arabia Saudita ma anche l’Egitto e la Giordania.
A rappresentare Trump alla cerimonia di Gerusalemme è andata una delegazione di primissimo ordine: la figlia Ivanka con il marito Jared Kushner, il segretario al Tesoro Steve Mnuchin. Più ovviamente l’ambasciatore David Friedman, il primo rappresentante degli Stati Uniti che lavorerà nella sede di Gerusalemme. Il trasferimento ufficiale è stato fatto coincidere con il 70esimo anniversario della nascita dello Stato d’Israele. E lo stesso Trump ha voluto essere presente alla solenne inaugurazione, con un collegamento in video dagli Stati Uniti: «Oggi – ha detto il presidente – Gerusalemme è la sede del governo d’Israele, della sua assemblea legislativa, della sua Corte suprema, della sua presidenza. Israele è una nazione sovrana e come ogni altra nazione sovrana ha il diritto di scegliersi la capitale, eppure per molti anni non abbiamo riconosciuto l’ovvia realtà che questa capitale è Gerusalemme».
La strage di Gaza, poi le proteste della Turchia che ha espulso l’ambasciatore israeliano, s’inseriscono in un quadro dov’è essenziale ricordare la decisione precedente di Trump in Medio Oriente: il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo nucleare con l’Iran. Un passo gravido di conseguenze anche per l’Europa. L’Amministrazione Trump infatti oltre a ripristinare le sanzioni economiche che Barack Obama aveva levato, ha precisato che queste colpiranno anche imprese dei paesi terzi che facciano affari con Teheran. Enorme l’imbarazzo dei governi europei che non sanno come reagire. Il mondo del business, con rarissime eccezioni, non ha dubbi: dovendo scegliere se investire sul mercato americano o rimanere attive su quello degli Stati Uniti, preferiscono non rovinarsi i rapporti con l’America. La minaccia di Total di abbandonare l’Iran è l’ultima prova che le sanzioni Usa stritolano le imprese europee, costrette ad applicarle se non vogliono perdere l’accesso al mercato americano. La compagnia francese è rimasta la più grande investitrice nel settore petrolifero iraniano.
Lo strappo su Gerusalemme è un classico di Trump, colui che rivendica il non essere «politically correct», che calpesta le convenzioni diplomatiche, denuncia le ipocrisie, vuol essere sempre il primo a gridare «il re è nudo». Così lui risponde indirettamente alle critiche della comunità internazionale, oltre che alle proteste dei palestinesi. Quasi tutti i governi del mondo hanno le ambasciate a Tel Aviv per segnalare la volontà di mantenere aperto lo status di Gerusalemme, in attesa di una decisione finale da concordare con i palestinesi. Gerusalemme Est dovrebbe essere la loro capitale, se mai vedrà la luce un vero Stato della Palestina. Lo strappo americano è netto. S’inserisce in una serie di scossoni con cui l’Amministrazione Trump interviene pesantemente negli equilibri geostrategici del Medio Oriente. Il trionfo non è solo di Netanyahu ma anche del principe saudita Muhammad Bin Salman, terzo polo del nuovo triangolo strategico. Se Bin Salman (detto Mbs) accentua il distacco saudita dalla causa palestinese – peraltro già in atto da anni – è perché ha incassato quel che voleva sul tema che più gli sta a cuore. Proprio come Israele, anche l’Arabia considera l’Iran il pericolo numero uno. La decisione di Trump di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano e di ripristinare le sanzioni su Teheran è stata annunciata la settimana prima l’evento di Gerusalemme capitale.
Dall’intervento di Kushner all’inaugurazione dell’ambasciata traspare quest’idea che il Medio Oriente possa essere trasfigurato grazie alle «nuove opportunità» che si aprono con questa politica estera Usa: «L’aggressione iraniana – dice il Primo Genero – minaccia tutti gli amanti della pace, in questa regione e nel mondo. Da Israele alla Giordania all’Egitto all’Arabia Saudita e oltre, molti leader lottano per modernizzare le loro nazioni e creare migliori condizioni di vita per i cittadini. Nel confrontare le minacce, e nel perseguire gli interessi comuni, cominciano ad emergere opportunità e alleanze un tempo inimmaginabili». Da parte di un trentenne che ha scarsa conoscenza del Medio Oriente ma gode della fiducia del suocero, questo appare come l’embrione di un vasto programma, molto simile alla visione di John Bolton, il neo-consigliere per la sicurezza nazionale. È una variante del piano neo-conservatore che sfociò nell’invasione dell’Iraq nel 2003. Niente «regime change», basta con l’illusione di esportare democrazia, ora il vero obiettivo è ricacciare indietro la Rivoluzione islamica khomeinista del 1979. Dalla Siria allo Yemen non mancano le occasioni di conflitto militare diretto.
Al bilancio di questo folle mese di politica estera trumpiana bisogna aggiungere una coda nordcoreana. Kim Jong-Un gioca a fare Doctor Jekyll e Mr Hyde, rispolvera la sua cattiveria di una volta e minaccia di far saltare il summit della pace. Chi semina vento raccoglie tempesta? Il quadro non è del tutto completo senza qualche pennellata di dettaglio. In mezzo a tanto caos il dollaro si sta rafforzando sensibilmente: i mercati sono ormai assuefatti e considerano il disordine globale come la nuova normalità? Altra evoluzione degna di nota, Trump continua la sua lenta risalita nei sondaggi. Sia pure partendo da livelli bassissimi, comincia a riavvicinarsi alla media dei presidenti quando arrivano alla metà del primo mandato. La politica estera può incassare delle débacle, ma gli americani notoriamente se ne disinteressano. Poi il conto, quando arriva, magari lo paga un altro presidente.
La tragedia di Gaza lascia serenamente indifferente questa Casa Bianca, intanto alcuni paesi europei si apprestano a spostare le loro ambasciate da Tel Aviv: altro effetto collaterale che a Trump non dispiace è aver spappolato la coesione delle politica estera europea in Medio Oriente.
C’è molto più imbarazzo di fronte al voltafaccia di Kim Jong Un, che sconvolge i preparativi per il summit del 12 giugno a Singapore. Incredibilmente, Trump si è astenuto dal reagire via Twitter. Ha cercato d’ignorare le minacce nordcoreane, con un’autodisciplina che non gli assomiglia per niente. 
Incalzato dai giornalisti sull’eventualità che salti il vertice della pace, si è limitato a dire «Vedremo, vedremo». La scoperta del «no comment» da parte di questo presidente ha del sensazionale. È chiaro che Trump e i suoi collaboratori (Mike Pompeo, John Bolton) sono in un vortice di dubbi: prima di tutto sull’interpretazione dell’irrigidimento improvviso di Pyongyang, poi sul come reagire. È un vero dietrofront, o è solo una delle tante maschere che Kim ha deciso d’indossare in questa messinscena? Prima Pyongyang ha denunciato le manovre militari congiunte Usa-Corea del Sud (alle quali aveva dato una sorta di avallo in precedenza), e per rappresaglia ha cancellato una riunione fra delegazioni governative delle due Coree. Poi ha escluso che sul tavolo del summit ci possa essere il «disarmo nucleare unilaterale» del suo Paese. Il pre-vertice comincia alzando la posta: alla luce delle ultime minacce, l’incontro stesso si trasforma in un «favore» fatto a Trump, che può essergli negato se quello pretende troppo o non concede abbastanza. Da notare infine il violento attacco ad personam contro il neo-consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton: viene definito «ripugnante» nell’ultimo comunicato nordcoreano. Kim vuole anche scegliere la composizione della delegazione americana?
Ora tutti ricordano gli innumerevoli precedenti in passato: Pyongyang ha una consolidata tradizione in fatto di strappi. D’altronde era irreale l’atmosfera di sereno ottimismo delle ultime settimane: davvero si poteva credere che la Corea del Nord avrebbe rinunciato al suo deterrente nucleare (trasformandosi in una Libia, cioè esponendosi a tentativi di rovesciamento del regime dall’esterno) in nome della Pace Mondiale?