Ricette per avere fortuna

Il premio Nobel per la fisica Niels Bohr, uomo razionale e di scienza, aveva un ferro di cavallo sopra la porta del suo laboratorio. Un giorno, vedendolo, un amico gli chiese se credesse nella fortuna. Lui rispose di no: l’aveva appeso soltanto perché qualcuno gli aveva detto che il ferro di cavallo funzionava, che uno ci credesse o meno. Bohr non è l’unico ad avere ceduto alla tentazione di avere un talismano. Come racconta la scrittrice e illustratrice americana Ellen Weinstein nel libro Ricette per avere fortuna (Recipes For Good Luck), appena pubblicato in inglese, le superstizioni e i rituali hanno da sempre attirato l’interesse di creativi, scrittori, scienziati, atleti, politici. Mary Shelley, autrice di Frankenstein, aveva un boa come animale domestico e scaramantico, che teneva sulle spalle mentre scriveva. Lasciava che fosse il serpente a dettare i tempi della sua routine davanti alle pagine bianche. Il tennista Bjorn Borg è stato il primo atleta conosciuto a farsi crescere la barba prima delle grandi sfide. Tra i suoi preparativi per Wimbledon – vinse cinque titoli – oltre alla barba incolta, anche il rito di indossare la stessa maglietta per ogni partita. La grande giallista Agatha Christie, invece, per cercare l’ispirazione aveva un rito preciso, che mantenne sempre: si ritirava in bagno. A mollo nell’acqua calda, profumata dai sali, mangiando mele e bevendo tè, immaginava delitti perfetti.
L’idea di sbirciare nelle biografie di figure iconiche e di personaggi famosi è un modo per riconoscere cosa c’è di speciale nelle nostre vite, in comportamenti che magari diamo per scontati ma che hanno un valore. L’autrice di Ricette per avere fortuna spiega: «Spero che le storie del libro incoraggino ad abbracciare credenze e routine per affrontare il mondo con ambizione e fiducia e ispirino a crearsi le basi per migliorare il proprio destino».
Se la superstizione cieca e ottusa è pericolosa e dannosa, una piccola dose di scaramanzia sembra utile per riuscire a superare meglio le sfide. Come fa notare Joseph Mazur, matematico e autore del saggio Cosa c’entra la fortuna? (What’s Luck Got to Do with It), non c’è niente di tangibile che possiamo chiamare fortuna, ma quando trasferiamo il pensiero a un oggetto creiamo qualcosa di concreto, che ci dà un punto fermo. Maia Young, professoressa associata alla Scuola di management Anderson dell’Università della California di Los Angeles, ha scoperto con le sue ricerche che l’attitudine che si ha rispetto alla fortuna è più di una semplice opinione personale: condiziona la nostra motivazione e la nostra propensione a rischiare per ottenere risultati. Nel saggio Il quoziente del coraggio: come la scienza ci rende più audaci (The Courage Quotient: How Science Can Make You Braver), lo psicologo Robert Biswas-Diener sostiene che «le persone che pensano alla fortuna come a un fattore stabile, qualcosa su cui potere contare, tendono ad avere più fiducia in se stesse e ad essere ottimiste. Di conseguenza, diventano più propense ad avere quello che gli psicologi chiamano la motivazione al successo, il forte desiderio di riuscire, nonostante le difficoltà e la fatica. Già convincersi di essere fortunati, quindi, è un primo passo».
Ecco qualche esempio concreto. In uno studio del 2010, un team di psicologi tedeschi ha coinvolto ventotto studenti universitari ai quali è stato chiesto di giocare una partita di minigolf. A una parte dei partecipanti all’esperimento è stato detto che avevano ricevuto la pallina fortunata. Questo gruppo ha avuto una performance del trentacinque per cento migliore rispetto a quelli che avevano «l’equipaggiamento normale». Gli stessi ricercatori hanno fatto anche uno studio con quaranta studenti che avevano dichiarato di avere degli oggetti feticcio. I ragazzi sono stati sottoposti a un test di memoria. Quelli che avevano con sé il portafortuna hanno avuto un punteggio più alto.
Il fascino della superstizione è celebrato in una mostra a New York, alla galleria Gobbi Fine Art con le immagini del fotografo di moda Gilles Bensimon. Intitolata Gris Gris, come il nome con cui si chiama l’amuleto vudù il cui scopo è proteggere chi lo possiede dalla sfortuna e attirare la buona sorte, raccoglie le foto dei talismani che Bensimon ha creato negli anni per superare l’ansia che gli veniva nel lavorare agli alti livelli dello show-business. Gli oggetti portafortuna sono bottiglie e corde raccolte sulla spiaggia di Phuket, una maschera rotta trovata a Venezia, un pezzo di vetro di mare raccolto a Long Island. Nel catalogo della mostra, la storica dell’arte Diana Widmaier-Picasso descrive le strane abitudini di suo nonno, celebre superstizioso. «Ogni volta che doveva andare dal parrucchiere trovava una scusa per disdire. Quando non poteva più rimandare l’appuntamento, faceva di tutto per essere certo che le sue unghie e i suoi capelli venissero raccolti e li spediva a mia nonna Marie-Térèse. Picasso era anche molto interessato ai palindromi: parole o numeri che, letti al contrario, rimangono invariati. E aveva un’altra mania. Quando i suoi figli, Claude e Paloma andavano a trovarlo per le vacanze, Picasso si teneva un loro vestito, un modo metaforico per appropriarsi della sostanza di qualcun altro, diceva».
Al di là degli oggetti e dei rituali, secondo Richard Wiseman, professore di psicologia all’Università di Hert-fordshire, in Gran Bretagna, la buona sorte si può attirare attraverso una serie di esercizi. Il primo è non fissarsi solo su un obiettivo perché altrimenti si perdono di vista le altre possibilità. Il secondo è cercare di vedere il lato positivo delle situazioni: ad esempio, se ci si sbuccia il ginocchio, rallegrarsi di non esserselo rotto. Infine, interrompere la routine, smettendo di fare sempre le stesse cose e frequentare le stesse persone: uscire dalla comfort zone, dal già visto e già provato, aumenta le chance che qualcosa di nuovo e fortunato possa succedere.

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