Singapore, un falso storico

by Claudia

Verice di Sentosa – Kim ha ottenuto legittimità internazionale e una promessa di sospensione delle esercitazioni militari Usa-Sud. Che appare come un grande cedimento di Trump

La più folle settimana della politica estera americana era cominciata offendendo tutti gli alleati, dall’Europa al Canada. Si è conclusa sul «cessato pericolo atomico», che Donald Trump ha dichiarato al suo rientro dal vertice di Singapore. Non è casuale che questo presidente sperimenti delle improvvise aperture con gli avversari tradizionali dell’America, mentre sconquassa una coalizione di amici e partner che dura dalla Seconda guerra mondiale. C’è del metodo in questa – apparente – follia. Nel giro di pochi giorni fra G7 e Singapore abbiamo avuto degli shock tali che bisogna estrarne qualche insegnamento prima che sia troppo tardi. Comincio dall’ultimo perché è il più grave: a Kim Jong-un (e a Xi Jinping) il presidente ha fatto balenare la possibilità concreta di un ritiro delle truppe americane dalla Corea. È enorme, e al tempo stesso coerente con la sua insofferenza verso i costi della difesa degli alleati. Gli europei della Nato sono avvisati: non sottovalutino il rischio. Le minacce di disimpegno di Trump oltretutto mandano segnali di via libera ad altri aspiranti «sfasciatori» dell’Europa.
La durezza con cui ha trattato Justin Trudeau al G7 la dice lunga sulla sua indifferenza verso gli alleati storici. La Merkel è la prossima nella lista. I dazi su acciaio e alluminio sono stati solo un assaggio. Nell’insofferenza verso il rapporto con l’Europa trapela qualcosa di profondo, non episodico. Verso quale mondo ci può traghettare un’America che si sente più a suo agio nel trattare coi regimi autoritari?
I due leader che si promettevano missili, atomiche e distruzione reciproca sul finire del 2017, sono tutti pacche sulle spalle e sorrisi nello storico vertice del 12 giugno al caldo tropicale del sud-est asiatico. Il luogo della magìa ha lo scenario adatto, l’hotel Capella del vertice è su un isolotto di Singapore, detto «Sentosa the State of Fun». Lo Stato del Divertimento: è un’antica guarnigione coloniale riconvertita al business delle vacanze, ospita resort, campi da golf, luna park e altre attrazioni in stile DisneyWorld, più una replica degli Universal Studios hollywoodiani. Ed è in stile Hollywood che Trump esordisce, mostrando al dittatore nordcoreano un piccolo documentario di fantapolitica: racconta un futuro in cui la Corea del Nord sarà come la gemella del Sud, prospera e tecnologicamente avanzata; l’alternativa sono tragiche immagini in bianco e nero che ricordano la guerra del 1950-’53.
Trump proietta il suo film (produzione Destiny Pictures, sic) anche nella conferenza stampa finale, per rivelarci le sue armi di persuasione. Sente di aver convinto, l’istinto gli dice che Kim vuole provare una strada diversa. Il documento finale che hanno firmato parla di «completa denuclearizzazione della penisola». Non ci sono date né impegni precisi sulle ispezioni internazionali. In compenso Trump ha già fatto una concessione di rilievo: sospende i «war games», le manovre militari congiunte che due volte all’anno coinvolgono le forze Usa e quelle della Corea del Sud. «Sarebbero una provocazione. E costano un’enormità, ci tocca pagare i bombardieri in volo dall’isola di Guam, mentre la Corea del Sud partecipa poco alle spese». La cancellazione delle manovre militari congiunte sembra un cedimento enorme, inaspettato, non concordato con il governo di Seul. Però corrisponde a un impulso profondo di Trump: da tempo questo presidente accusa tutti gli alleati (europei della Nato inclusi) di farsi difendere a sbafo dall’America. Un graduale ritiro dagli impegni di «gendarme mondiale» è nelle sue corde, coerente con la visione di America First.
E la denuclearizzazione? Un regime ferocemente autoritario, isolato dal mondo, vissuto per decenni nella paranoia bellicosa, dovrebbe aprirsi di colpo agli ispettori internazionali, accettare visite senza preavviso, invasive e illimitate. Trump insiste sulla buona fede del suo interlocutore, persuaso di avergli scrutato l’anima. «Mi ha detto che ha già iniziato a distruggere una base missilistica, eppure questo non era incluso nei nostri patti». In quanto a conoscere esattamente tutti gli impianti nucleari di cui dispone la Corea del Nord, il presidente americano vanta la capacità della sua intelligence: «Abbiamo strumenti eccezionali». Non è neppure chiaro che cosa i nordcoreani intendano per denuclearizzazione: il documento che porta la firma di Kim non specifica che essa riguardi solo Pyongyang; su quella base loro potrebbero esigere anche il ritiro dell’ombrello nucleare americano a protezione di Seul.
Ci vuole ottimismo e Trump in versione Singapore ne ha in abbondanza. Già immagina altri summit come questo: Kim lo ha invitato a Pyongyang, lui potrebbe ricambiare ospitandolo alla Casa Bianca, in vista c’è il riconoscimento diplomatico. Si crogiuola nel paragone con i suoi predecessori, «e non solo Obama». Da Clinton a Bush, tutti sono stati incapaci di risolvere il problema nordcoreano, «me lo hanno lasciato a me, nelle condizioni peggiori». Gli altri rifiutarono d’incontrare il dittatore (o il padre), Trump con questo colpo d’ingegno ha creato una situazione nuova.
Interrogato sui diritti umani, cita alcuni risultati che riguardano solo gli americani: la recente liberazione di ostaggi, la promessa di restituire alle famiglie i resti di alcuni soldati Usa caduti sul fronte coreano negli anni Cinquanta. E la popolazione nordcoreana, oppressa da un regime brutale? Trump la pensa un po’ diversamente, ammette gli abusi ma secondo lui «Kim ama il suo Paese, lo vedi dal fervore con cui ne parla, vuole un futuro diverso».
Tutto questo potrebbe cambiare ancora, così come si è capovolto il clima delle relazioni bilaterali in questi sette mesi. Certo i test missilistici e nucleari sono cessati, e non è poco. Ma la denuclearizzazione dovrebbe essere «irreversibile»: le prove che dovrà offrire Pyongyang sono tante. Kim si gode un trionfo sulla scena mondiale. La speranza di Trump è che ci prenda gusto a tal punto, da rovesciare il suo «teorema atomico» che vedeva nella superbomba una polizza vita.
Una nota di colore per finire sul vertice con Kim: Trump gli ha anche prospettato i guadagni da fare aprendo la Corea del Nord al business immobiliare… e ci sarebbe da ridere ma non è escluso che l’appello all’avidità abbia contribuito a far scattare l’intesa fra i due. È tutto un nuovo modo di far politica estera. Le prove generali forse le fecero Berlusconi e Putin?
Sulle macerie del G7 vedremo nascere un G3 fra Stati Uniti, Cina e Russia? Sarà quello il nuovo direttorio per gestire gli affari mondiali, con l’Europa relegata ai margini? Trump nella brutalità con cui ha posto la questione russa al G7 ha colto un dato reale. «Preferisco avere la Russia dentro che averla contro». È la sua versione – rozza e semplificata – della realpolitik che fu praticata da Henry Kissinger: liberando la politica estera dalla zavorra di preoccupazioni etiche, valori, ideali. Naturalmente l’accostamento fra i due è un insulto all’ex segretario di Stato di Richard Nixon, che fu l’artefice del disgelo con la Cina maoista, e prima ancora era stato un brillante studioso della Pace di Vestfalia e del Congresso di Vienna. Una cosa però hanno in comune, oltre a una buona dose di cinismo: per ambedue i personaggi contano i rapporti di forze, gli equilibri delle potenze. Trump ammira l’aggressività di Vladimir Putin, che ha visto all’opera in Siria. Rispetta il decisionismo di Xi Jinping, a cui attribuisce il merito di avere ammansito la Corea del Nord.
Le lungaggini delle democrazie europee lo infastidiscono. Sente che con i presidenti russo e cinese può negoziare come nel mondo del business.
Due pesi e due misure: abbiamo visto al G7 quanti sgarbi Trump ha inflitto ai suoi alleati. Ha piantato in asso il vertice, abbandonandolo prima della fine dei lavori, per andarsene a Singapore. Non ha voluto sentire ragioni sui dazi americani. Applicherà sanzioni alle imprese europee che fanno affari con l’Iran, nonostante la palese illegalità del comportamento americano. Sulle politiche ambientali ha disertato la discussione. In compenso ha ribadito, dall’inizio alla fine, che la Russia deve rientrare nel concerto delle nazioni, anche se non ha fatto nulla per sanare le ferite di Crimea e Ucraina.
L’establishment repubblicano, e quello militare, sono preoccupati per tutti questi segnali di «intesa col nemico». Il capo di tutte le agenzie di intelligence americane ha lanciato un allarme su «Putin che lavora a dividere la Nato». Ma alla fine il Commander-in-Chief è Trump. L’opposizione democratica è indignata. Fareed Zakaria della Cnn riassume il sentimento della sinistra americana, quando si augura che «ciò che resta del G7» cioè Europa Canada e Giappone spingano fino in fondo l’isolamento dell’America, rispondano colpo su colpo, infliggano dazi contro dazi, sanzioni contro sanzioni, in modo da far pagare un prezzo pesante all’economia americana e alla leadership di Washington. Tutto ciò è irrealistico. Un G6 fatto da quelli che Trump ha snobbato, non ha consistenza né coerenza.
Perfino i quattro europei non fanno squadra, con la May che prepara Brexit, Conte che ha dei referenti putiniani, e l’asse Merkel-Macron indebolito dalla crisi di leadership tedesca. Almeno questo Trump lo ha colto: l’attuale G7 rappresenta un mondo che non c’è più, i rapporti di forze sono cambiati, i soci di quel club che nacque 40 anni fa non sono la cabina di regìa della globalizzazione. La Cina è la seconda economia mondiale, sulla buona strada per agguantare gli Stati Uniti. L’India sorpasserà la Germania. La Russia ha un’economia di scarso peso ma un arsenale militare formidabile, e sa giocarsi le sue carte bene come si vede in Medio Oriente. L’attrazione di Trump verso gli uomini forti coincide con il rifiuto di «esportare un modello», di difendere dei valori.