Sono andato nel deserto a cercare la verità sull’altra crisi dei profughi: non quella che riguarda il Mediterraneo e l’Europa, ma quella numericamente ben più importante che si svolge negli Stati Uniti. Mi sono spinto fino a quell’angolo d’America traversato da un triplice confine: s’intersecano Texas e New Mexico sul versante degli Stati Uniti, a Sud c’è il Messico. L’ultima crisi dei rifugiati, quella che ha fatto scandalo nel mondo intero per il trattamento disumano dei bambini strappati ai genitori, si è consumata nella zona di El Paso. Un vero deserto, sabbie e dune o sterpaglie riempiono distese infinite, tagliate da qualche catena di monti aridi e canyon bruciati dal sole. È uno spettacolo sconcertante. È un po’ come se i profughi del Medio Oriente, dell’Africa nera e dell’Afghanistan, anziché cercare lo sbarco in Italia convergessero verso il Sahara. La spiegazione non è geografica né socio-economica, è giuridica: al El Paso si trova uno dei Port of Entry, definizione dei punti di accesso agli Stati Uniti dov’è consentito presentare domanda di asilo.
È questo che governa i flussi migratori. Sui quali è inutile pronunciare frettolosi giudizi, ripetendo stereotipi a occhi chiusi. L’Amminstrazione Trump ha fatto cose orrende. Ma l’esistenza di un «mostro» come l’attuale presidente degli Stati Uniti eccita in molti di noi l’istinto di gregge, asseconda la nostra pigrizia intellettuale. Tutte le colpe sono sue, e così il mondo diventa più facile da spiegare. Si scopre che non solo i bambini venivano strappati ai genitori, ma perfino imbottiti di psicofarmaci senza prescrizione mediche, in alcuni centri di accoglienza privati. Oops, piccolo dettaglio: quest’ultimo abuso, rivelato da una denuncia presentata ad aprile, risale in realtà all’Amministrazione Obama. Nella fretta molti colleghi giornalisti hanno ignorato le date della denuncia: 2011-2014. Meglio non confondere le idee al nostro pubblico, raccontargli una realtà in bianco e nero, con tutti i cattivi da una parte e i buoni dall’altra.
Da El Paso io invece sono tornato con le idee più confuse di prima. Mi riconosco nell’analisi di due ex dirigenti della Homeland Security e Border Protection che lavorarono durante l’Amministrazione Obama, Nate Bruggeman e Ben Rohrbaugh: «Il dibattito su come rispondere al boom dei richiedenti asilo è stato dominato dagli estremi. Da una parte ci sono quelli che vogliono punire i migranti, ignorano i nostri obblighi verso i profughi, e li vedono come una minaccia. Al polo opposto c’è un’altra visione estrema per cui chiunque si presenti al confine meridionale deve poter entrare negli Stati Uniti e rimanerci finché non commette un crimine». In mezzo a questo stallo, l’alto costo del transito illegale provoca una selezione a rovescia: partono dal Sud America e dal Centro America non i più bisognosi ma chi si può permettere di pagare molte migliaia di dollari. La soluzione realistica, spiegano i due esperti, è spostare i centri di esame delle richieste di asilo: in Messico e in altri paesi dell’America centrale. Solo così si può avvicinare chi ha più bisogno, evitando che a fare la selezione e il governo dei flussi siano la disponibilità di soldi e i trafficanti criminali.
Per adesso è certo una buona cosa che Trump sia stato costretto a retrocedere sulle crudeli separazioni genitori-figli. Lo sdegno provocato dai bambini migranti, isolati e rinchiusi in appositi centri di detenzione, ha finito per piegare il presidente di America First. Dal papa all’opinione pubblica internazionale, il coro di condanne per quei metodi crudeli ha rafforzato l’ampio fronte contrario all’interno degli Stati Uniti: non solo la sinistra ma tanti leader repubblicani, inclusa l’ex First Lady Laura Bush, hanno espresso disgusto. Uno slogan ha unito gli oppositori interni di ogni credo politico e religioso: questa non è l’America, non è la nazione in cui ci riconosciamo noi. Alla fine Trump ha pasticciato una retromarcia, ha firmato un decreto esecutivo per «riunire le famiglie», che lui stesso aveva separato in modo arbitrario.
È proprio a El Paso che la tolleranza zero di Trump sugli immigrati clandestini ha subito la sua prima disfatta. Gli avversari l’hanno chiamata la sua Guantanamo dei bambini. Oppure la Kathrina di Trump, nel ricordo dell’uragano che devastò la Louisiana, la vergogna che macchiò l’Amministrazione Bush per la sua indifferenza di fronte alla tragedia. A quelle tende «invisibili» che imprigionano bambini tuttora separati dai genitori, si arriva viaggiando lungo il confine Texas-Messico, quaranta minuti di autostrada da El Paso. Si costeggia quella recinzione fortificata a perdita d’occhio che è già una barriera insormontabile, ancor prima che Trump ci costruisca (se mai ci riuscirà) il Muro dei suoi sogni. Si lascia l’autostrada I-10 a Fabens, si raggiunge Turnillo dove c’è uno dei ponti internazionali di passaggio verso Ciudad Juarez in Messico.
La temperatura tocca i 42 gradi all’ombra. È praticamente nel deserto. Se volevano nascondere il campo dei bambini, hanno scelto bene. In quest’area desolata e sperduta le tende della vergogna restano comunque inaccessibili, centinaia di metri di deserto e tante barriere recintate ci separano. Gli agenti della Border Patrol hanno sorvegliano noi giornalisti e ripetono inflessibili: «Non potete avvicinarvi, niente foto né video da qui». I colleghi delle ricche tv americane hanno rubato immagini aeree grazie a elicotteri e droni (720 dollari di affitto per mezz’ora di ripresa). È solo sfuggendo nei cieli alla Border Patrol che si sono ottenute dall’alto le foto di quei bimbi all’ingresso dalle tende. Poi un visitatore segreto ha registrato e passato alla ong ProPublica i pianti e i singhiozzi, per la separazione brutale dai genitori arrestati e deportati altrove.
L’attenzione dei media ha aiutato almeno Ruben Garcìa, fondatore e direttore dell’Annunciation House. La sede di questa istituzione la visito nel centro di El Paso, è una decrepita palazzina di mattoni rossi, un piccolo porto di transito dove incontro migranti dal Sud America, dall’Asia e dall’Africa: salvo i bambini, tutti hanno il braccialetto elettronico ai polsi o alle caviglie. Arriva perfino un gruppo di brasiliani del Minas Geraìs, nel loro lungo e tortuoso itinerario hanno scelto di tentare la fortuna con una domanda di asilo qui al confine di El Paso. Annunciation House fu creata nel 1976 da cattolici ispanici, ammiratori di Martin Luther King. Offre assistenza e consulenza legale ai migranti, li ospita mentre sono in transito verso tribunali e centri d’accoglienza, mantiene fitti rapporti con associazioni umanitarie dei paesi d’origine.
Ora non si respira affatto un’atmosfera di vittoria, malgrado la clamorosa retromarcia di Trump. Nel punto di transito Messico-Usa più controverso per via delle tende dei bambini, nessuno sembra sicuro che ci sia stata una vera svolta. Certo il presidente ha dovuto rinnegare se stesso, ha firmato un decreto esecutivo che impone di tenere unite le famiglie anche in caso di arresto. Ma la formulazione dell’editto è piena di ambiguità. Trump ribadisce tolleranza zero, quindi l’arresto senza eccezioni per l’immigrazione clandestina. Promette di non separare più genitori e figli, ma non dice quale sarà il destino dei 2300 minori già strappati dai genitori e reclusi in centri di detenzione come le tende di Turnillo. Trump non ha affatto promesso che non metterà più i bambini in gabbia: ha solo annunciato che in futuro saranno nelle stesse gabbie dei genitori. Ma esistono poche carceri attrezzate per ospitare famiglie intere. E la legge stabilisce che i minori non possano essere trattenuti oltre i primi 20 giorni. Dove finiranno, se l’esame preliminare sui genitori dura più a lungo?
Il clima politico a El Paso – isola democratica dentro un Texas repubblicano – non è quello di New York o Los Angeles. La «progressista» El Paso ha bocciato in un referendum la costruzione di un nuovo ponte verso il Messico, perché pensa che ce ne siano già fin troppi. La mia autista Uber, Belinda, è ispanica ma da 23 anni non osa varcare la frontiera «perché di là c’è troppa violenza, hanno dovuto perfino chiudere il Luna Park di Ciudad Juarez per le sparatorie». Sul tema dei minori strappati ai genitori alterna l’affetto («me ne prenderei qualcuno io») e la diffidenza: «Se non vogliono che i loro figli finiscano in un carcere americano, non devono attraversare la frontiera illegalmente, punto e basta».
Di certo la tolleranza zero non ha avuto il risultato principale che sperava Trump. Doveva esserci un potente effetto-annuncio: il messaggio da far pervenire ai paesi d’origine, per dissuadere chi vuole tentare il viaggio della speranza. Ma gli ultimi dati dell’Onu rivelano questo: gli Stati Uniti tra il 2016 e il 2017 cioè in piena Amministrazione Trump hanno visto aumentare del 27% le richieste di asilo. Con 331’700 richiedenti, sono di gran lunga il paese numero uno, molto davanti alla Germania (198’300). E se fino a El Paso sono arrivati perfino dei brasiliani dal Minas Geraìs, vuol dire che le filiere sono ben organizzate. Il ruolo delle ong umanitarie sembra impallidire di fronte a gruppi privati che sul business dell’accoglienza hanno creato dei piccoli imperi. La Southwest Key di Juan Sanchez domina gli appalti per i centri di accoglienza, grazie agli ottimi rapporti con la destra repubblicana che governa il Texas. Il giro d’affari di questi privati è stato stimato a 1,5 miliardi l’anno. Vi rientra anche il centro di accoglienza per minorenni Shiloh Residential Treatment a Manvel, Texas, oggetto di una dettagliata denuncia per l’abuso di psicofarmaci, imposti ad alcuni minori senza assistenza medica. La denuncia è stata presentata ad aprile ma i fatti risalgono al periodo 2011-2014, durante l’Amministrazione Obama.