Erdoğan sultano assoluto

by Claudia

Turchia – Con la sua rielezione di domenica scorsa è diventato un presidente esecutivo a tutti gli effetti ma in un contesto solo formalmente democratico dopo la controversa riforma con la quale aveva accentrato la gran parte dei poteri politici del Paese

Anche l’ultimo tassello è andato a posto. Con le elezioni anticipate del 24 giugno scorso – elezioni al tempo stesso legislative e presidenziali – Recep Tayyip Erdoğan non solo è stato riconfermato alla massima carica dello Stato, ma si è garantito la ricandidatura alla medesima anche dopo il 2023. Così la Turchia è diventata una Repubblica presidenziale sul filo della dittatura come previsto dal referendum dell’anno scorso, anche quello fatto piovere dall’alto da un rais (un capo alla turca o sarebbe meglio tradurre un boss) interessato solo a consolidare il proprio potere e spazzar via qualsiasi forma di opposizione.
E come per il referendum del 2017, anche il 24 giugno scorso la teoria del complotto ha finito per avere la meglio su qualsiasi argomentazione politica: la Turchia sarebbe attorniata da nemici che ne vogliono la rovina, sempre pronti ad imbracciare le armi come è successo col fallito colpo di Stato militare del 15 luglio 2016 ad opera della bestia nera di Erdoğan, Fethullah Gülen. Da allora il presidentissimo ha imprigionato o fatto licenziare migliaia di oppositori – veri o presunti –, ha imbavagliato la stampa e l’universo dei media, ha messo in riga le università, le scuole nonché l’intera burocrazia, è ripartito lancia in resta a perseguitare i curdi in patria e all’estero (leggi in Siria e in Iraq) e non si stanca di chiedere agli Stati Uniti l’estradizione di Gülen, le cui colpe – peraltro – sono tutte da provare.
Ma avere un capro espiatorio è utile anche se l’ossessione di Erdoğan per il predicatore che ha grandemente contribuito alle sue fortune politiche ha qualcosa di edipico, attiene alla tragedia greca, o, se si preferisce, alla mania omicida del capitano Achab contro Moby Dick, la balena bianca. Tutti i dittatori mediorientali del resto hanno attacchi periodici di «complottite» con la quale giustificano qualsiasi forma di repressione o ampliamento dei propri poteri politici. Così oggi Erdoğan – sparita la figura del premier – può scegliere i candidati al parlamento, confezionarsi il governo che più gli aggrada senza che né lui né l’esecutivo debbano rispondere del proprio operato all’assemblea legislativa; può intervenire direttamente nelle decisioni economiche e, in fatto di giustizia, nominare non solo i pubblici ministeri ma anche i membri dell’equivalente turco del nostro Consiglio Superiore della Magistratura.
Sarà insomma un presidente esecutivo a tutti gli effetti ma in un contesto solo formalmente democratico visto che proprio lui ha totalmente «svuotato» la democrazia turca nei suoi 16 anni al  potere come primo ministro dal 2003 al 2014 e da allora come presidente della Repubblica.
Fino alla vigilia del voto, comunque, una vittoria schiacciante del presidente non era affatto scontata, come non era scontata quella del suo partito, l’Akp, acronimo locale di Partito per la giustizia e dello sviluppo. Con l’aumento del deficit pubblico, l’inflazione al 12,5% e il vistoso calo degli investimenti stranieri lo scontento aveva cominciato a serpeggiare anche nelle fasce popolari della Turchia profonda, quella della penisola anatolica, che costituiscono il suo elettorato. Erdoğan ne era perfettamente cosciente al punto da anticipare a quest’anno le elezioni in calendario per il 2019 e presentarsi agli elettori assieme all’Mhp (Partito del movimento nazionalista ) di Devlet Bahçeli, nella Coalizione per la Repubblica. L’Mhp, per intenderci, è il braccio politico dei famigerati Lupi grigi cui apparteneva Ali Ağca, che tentò di uccidere Giovanni Paolo II il 13 maggio 1981.
In questa formazione Erdoğan, sull’onda di un’affluenza alle urne dell’88% dell’elettorato, alle presidenziali ha ottenuto il 52,6% dei voti – evitando così il ballottaggio con Muharrem İnce – mentre la Coalizione della Repubblica ha vinto 344 seggi su 600 del parlamento coi quali potrà strapazzare a suo piacimento la Costituzione. Per la precisione, l’Akp, ha portato a casa 295 seggi e l’Mhp 49, il che sta a significare che il presidente potrà mantenere la maggioranza assoluta solo e soltanto col favore del lupo Devlet Bahçeli. E cosa significhi questo lo si è visto già il 26 giugno scorso quando Bahçeli ha smentito in pubblico una delle tante promesse elettorali di Erdoğan ovvero di porre fine allo stato d’emergenza in vigore dal fallito golpe del 2016.
C’è stato invece poco da fare per le opposizioni e i loro candidati alla presidenza: Muharrem İnce del Partito popolare repubblicano (Chp) ha ottenuto il 30,6% dei voti; Meral Akşener – unica donna in lizza – del Partito del bene, il 7,3%, e il povero Selahattin Demirtaş del Partito democratico dei popoli (Hdp) filo-curdo che è stato costretto a fare la campagna elettorale dalla prigione col cellulare di sua moglie ma è riuscito comunque a guadagnare per sé l’8,3%, dei consensi e a far superare all’Hdp la soglia di sbarramento del 10% nelle legislative. «Poco» si dirà, ma almeno un’opposizione esiste e si spera possa rafforzarsi anche se non sarà facile. La Turchia uscita dalle urne del 24 giugno, infatti, è un Paese che ha virato ulteriormente a destra, è profondamente islamo-nazionalista e innamorata dell’utopia di rinverdire i fasti ottomani visto che la «cattiva» Europa le ha chiuso le porte in faccia.