Che cosa rimane di un giardino?

Andiamo a vedere un giardino, un giardino di quelli inseriti nei manuali e nei libri di storia: lo guardiamo e siamo convinti che per incantamento attraverseremo i secoli, potremo fare un giro sulla macchina del tempo. È proprio questa una delle illusioni che vengono sgretolate dal Giardino degli equivoci di Guido Giubbini, critico d’arte e fondatore del Museo d’arte contemporanea di Genova, che dal 1990 si interessa di quella scatola verde che è anche oggetto di questa rubrica. 
Un libro che vuole tracciare una controstoria, laddove però manca addirittura una storia. Sì, perché farà strano sentirlo ma una vera e propria storia dei giardini non è ancora stata scritta (come apprendiamo dal libro); e per «storia» s’intende, ovviamente, qualcosa di filologicamente supportato, operazione difficile da compiersi in un contesto che è l’arte effimera per eccellenza. 
Che cosa rimane, infatti, di un giardino? Come facciamo a dire che quel giardino che noi vediamo ora, in questo momento, sia lo stesso voluto dal giardiniere o dall’artista dell’epoca? Il giardino cambia dalla sera alla mattina, perché magari nel frattempo sono sbocciati nuovi fiori o altri sono appassiti. Quindi, quando andiamo a vedere il giardino di Monet a Giverny dobbiamo tener conto che vedremo qualcosa che ha a che fare con l’originale ma al contempo ha subito delle modifiche – lo stile inglese, per esempio, è stato innestato a posteriori ed è un falso storico affermare, come invece viene puntualmente fatto, che Monet fosse un conoscitore del giardino all’inglese. 
A proposito degli inglesi: Giubbini non mette in dubbio le loro grandi doti di giardinieri e il fatto che abbiano contribuito a innestare nei giardini un’enorme varietà di fiori, anche esotici (grazie all’invenzione della serra). Ma l’idea che siano stati loro a portare i fiori nei giardini è un altro equivoco (se non un falso storico): in realtà la scienza botanica nacque in Italia con la prima cattedra nell’Università di Padova e i primi orti botanici a Padova stessa, Pisa, Bologna, Montpellier, Parigi e Heidelberg. «Ciò in cui l’Inghilterra ha eccelso e in parte ancora eccelle, ed è la vera e incontestabile ragione della sua superiorità, è un’altra ed è stata la capacità di creare nuovi modelli formali», si legge nel libro. 
Ma prima di arrivare al giardino all’inglese, si è passati per altre tappe: dall’hortus conclusus medievale, nel Rinascimento – che segnò la speranza di poter riabilitare la cultura classica sotto l’egida di una Chiesa di ispirazione mondana e temporale – si sperimentò il giardino aperto, che inglobava il paesaggio, il cui primo esempio è Villa d’Este a Tivoli. 
Il modello formale di questo cambiamento va cercato nella cultura islamica, e, nello specifico, nel Generalife (residenza estiva dei sultani) di Granada. Il giardino così rivisitato può affrancarsi dall’essere un luogo di rifugio e compensazione, qual era stato nel Medioevo, e diventa «simbolo di integrazione di controllo del territorio». Qualcosa che dal 1700 in avanti abbiamo nuovamente perso: il giardino borghese torna a essere chiuso, distinto dall’esterno, perché diventa luogo protetto dove cessa la legge universale dello sfruttamento del territorio ai fini del profitto capitalistico. 

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