Johnson e Corbyn: accuse di razzismo

by Claudia

Gran Bretagna – Laburisti e tories travolti da uno scandalo per ragioni simili e speculari

I due ostacoli principali verso un ripensamento della Brexit sono sotto attacco per ragioni simili, e speculari: Boris Johnson, ex ministro degli Esteri screditato ma ancora capace di influenzare l’opinione pubblica con le sue tirate euroscettiche, e Jeremy Corbyn, leader di un Labour finora troppo immobile per rappresentare le istanze di chi, come una fetta crescente dei suoi elettori, non vuole la Brexit, sono entrambi accusati di razzismo. Il primo per un articolo sul «Daily Telegraph», quotidiano conservatore che l’ha accolto tra le sue munifiche braccia appena lasciato il Foreign Office, in cui paragonava le donne musulmane con il velo integrale a delle «cassette della posta» e «rapinatori di banche», scatenando le ire di tutti, incluse le femministe che sulla questione vorrebbero un dibattito aperto e informato, non inquinato dagli insulti.
Per Corbyn la questione è invece legata alle accuse di antisemitismo che da sempre aleggiano sulla sua figura e che si sono cristallizzate intorno ad alcune immagini che lo ritraggono con una corona di fiori in un cimitero palestinese in Tunisia dove sono sepolti alcuni membri dell’organizzazione Settembre Nero che uccise undici atleti della nazionale israeliana a Monaco nel 1972.
Islamofobia e antisemitismo non sono temi alla moda né argomenti in grado di distruggere una carriera, soprattutto in un contesto di sensibilità sovranista e di ripiegamento culturale, e l’Europa è piena di tristi esempi di questo. Ma sono accuse che hanno il vantaggio di essere immediatamente comprensibili ad un vasto pubblico, rafforzando l’idea che in questa torrida estate del 2018, con la Brexit così vicina nel tempo e ancora così lontana nella forma, nessuno più intende fare sconti a Boris l’opportunista e Jeremy l’inattivo. In autunno ci saranno le conferenze di partito – dal 23 al 26 settembre a Liverpool per il Labour e dal 30 settembre al 3 ottobre a Birmingham per i Tories – e l’inizio di una resa dei conti con la realtà lungamente rimandata, visto che l’uscita dalla Ue avverrà il 29 marzo del 2019.
I conservatori non possono permettersi di avere un Boris Johnson fuori controllo che continui a fare promesse da campagna elettorale continuando ad illudere l’elettorato e distruggendo gli sforzi di pragmatismo che Theresa May ha meritevolmente fatto fino ad ora. E infatti oltre a lamentare la grossolanità delle parole di Johnson sulle donne musulmane, i Tories hanno denunciato anche il fatto che l’ex ministro abbia violato le regole tornando al suo lavoro da editorialista da 275mila sterline all’anno (almeno) senza seguire le procedure obbligatorie. Se ci dovrà essere una sfida alla leadership della May, nessuno vuole correre il rischio di ritrovarsi a Downing Street uno che non ha neppure iniziato a ragionare sui punti chiave della Brexit, come l’Irlanda del Nord o l’unione doganale.
Sul fronte laburista la questione è diversa, innanzi tutto perché tocca il leader del partito e non l’eterno sfidante e poi perché riguarda un problema ideologico profondo, anzi due: il rapporto di Corbyn con Israele e quello con l’Unione europea. Il sessantottenne socialista è sempre stato vicino alla causa palestinese e ha sempre criticato la politica aggressiva di Israele. Le immagini al cimitero tunisino risalgono al 2014, quando Corbyn era un deputato semplice, ribelle e contestatore seriale, e quando l’idea che potesse diventare leader del partito avrebbe fatto ridere tutti, lui per primo. «Presente» ma «non penso di essere stato coinvolto» nella deposizione della corona di fiori sulla tomba dei terroristi: Corbyn si è difeso dicendo che era lì per onorare «le vittime del bombardamento del 1985 del quartier generale dell’Olp, molte delle quali erano civili» e, in uno scambio arroventato di tweet con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, ha ricordato che «quello che richiede condanna assoluta è l’uccisione di 160 manifestanti palestinesi a Gaza dal marzo scorso».
Parole che però si sommano al rifiuto del Labour di adottare la definizione piena di antisemitismo data dall’Alleanza internazionale per la memoria dell’olocausto, IHRA, che comprende il fatto di accusare gli ebrei di essere più leali a Israele che al loro Paese, di paragonare le azioni di Israele a quelle dei nazisti e di dire che l’esistenza dello stato di Israele è di per sé razzista. Dal partito, che fino alle elezioni del 2015 è stato guidato da Ed Miliband, di famiglia ebrea, ma dove negli ultimi anni ci sono stati incidenti incresciosi, tutti stanno facendo pressione affinché si arrivi ad un compromesso e anche uno come Gordon Brown, ex cancelliere che continua a mantenere una sua autorevolezza nella sinistra del partito, è intervenuto dicendo che Jeremy Corbyn deve cambiare il suo approccio.
Brown ha detto un’altra cosa che tutti pensano, ossia che l’elettorato laburista è sempre più contrario alla Brexit e favorevole ad un secondo referendum sull’esito dei negoziati. Lo dicono i sondaggi, lo dice la voce della gente. E lo dicono anche i sindacati, preoccupati dell’impatto che un’uscita troppo drastica dalla Ue potrebbe avere sull’occupazione. Tutti messaggi che Corbyn dovrà leggere, come Boris, o entrambi rischiano di perdere quel tocco magico che li ha tenuti a galla nonostante gli errori, nonostante le enormi debolezze.