C’era una volta la cattolicissima Irlanda. Quella dove il legame con Santa Romana Chiesa, le sue parrocchie, i suoi riti erano un elemento forte dell’identità (e della contrapposizione con gli Unionisti). Pur con tutti i limiti degli stereotipi, quest’Irlanda forse c’era ancora 39 anni fa, quando Giovanni Paolo II compì quella che fino a quest’agosto 2018 era stata l’unica visita di un Papa a Dublino. Le cronache di allora parlarono di due milioni e mezzo di persone accorse nei tre giorni di incontri, praticamente un abitante su due dell’isola.
Il problema è che negli ultimi due decenni è stato quanto mai oscuro per la Chiesa cattolica il cielo d’Irlanda. A maggio ha fatto notizia la schiacciante vittoria del sì nel referendum sull’aborto, praticamente l’ultima ridotta nella difesa dell’eccezione cattolica irlandese rispetto al resto dell’Europa. Ma è stata una sconfitta ampiamente annunciata; la sconfitta di una Chiesa che – come ha detto l’arcivescovo di Dublino Diarmuid Martin, parafrasando una delle espressioni più note di papa Francesco – è essa stessa «un ospedale da campo». Nella capitale oggi ci sono quartieri dove la frequenza alla Messa domenicale non arriva al 2 per cento della popolazione; i seminari del Paese da cui un tempo partivano missionari per tutto il mondo sono vuoti; gli stessi politici cattolici locali sono i primi a mostrare insofferenza nei confronti di Roma e delle sue lentezze.
Che cosa c’è dietro a tutto questo? L’inesorabile avanzata della secolarizzazione da sola non basta a spiegare un cambiamento tanto radicale. E infatti la risposta sta altrove: a travolgere la cattolicissima Irlanda è stato soprattutto lo scandalo pedofilia. Sono state le accuse durissime sugli abusi commessi da sacerdoti e da istituti religiosi (compresi quelli femminili, come nel 2002 denunciò il film Magdalene di Peter Mullen) a far crollare la fiducia nella Chiesa cattolica dal Donegal fino a Dublino. Del resto l’Irlanda è stata l’epicentro dello scandalo in Europa: nel 2009 il rapporto shock della Child Abuse Commission – voluta dall’allora premier Bertie Ahern, nonostante forti resistenze degli ambienti clericali – portò alla luce ben 2500 casi di violenze compiute tra il 1940 e il 1980 da persone o realtà legate alla Chiesa cattolica. «Le vittime – raccontò quel rapporto – erano spesso giovani difficili, orfani, disabili, abbandonati, che speravano di ricevere dalla Chiesa il conforto che non avevano mai conosciuto e si ritrovavano invece inghiottiti in un feroce cuore di tenebra. La pedofilia e l’abuso sessuale nei confronti dei bambini erano un fatto endemico».
Quello scandalo ha costretto la Chiesa irlandese a fare i conti in maniera seria con il problema. Nel 2010 Benedetto XVI in persona scrisse ai fedeli del Paese riconoscendo «la risposta spesso inadeguata da parte delle autorità ecclesiastiche». Così una delle vittime – Marie Collins, abusata sessualmente da un sacerdote quando aveva tredici anni – è stata coinvolta dal Vaticano nell’elaborazione delle proprie politiche di «tolleranza zero» nei confronti della pedofilia. E papa Francesco l’aveva anche voluta nella sua commissione anti-abusi; ma alla fine – l’anno scorso – Marie Collins se n’è andata denunciando «le troppe resistenze della Curia romana». A dimostrazione di quanto la ferita resti aperta.
La scelta di organizzare proprio a Dublino l’incontro mondiale delle famiglie cattoliche da parte della Chiesa cattolica – l’occasione per il viaggio che papa Francesco compie in questi giorni – voleva essere probabilmente un modo per provare a guardare comunque avanti. E anche lo stile impresso da Bergoglio all’appuntamento si preannunciava molto meno muscolare rispetto al passato: non una parata identitaria, ma un’occasione di dialogo con tutte le famiglie, nello stile di Amoris Laetitia, la sua esortazione apostolica che ha segnato l’apertura sul tema dell’accesso ai sacramenti da parte dei divorziati risposati. Alla vigilia non era mancata nemmeno la polemica da parte dei movimenti cattolici integralisti per la presenza tra i relatori scelti dal Vaticano per l’appuntamento di padre James Martin, gesuita statunitense spesso ospite dei grandi network televisivi, sostenitore dell’urgenza di un atteggiamento più aperto della Chiesa cattolica nei confronti del mondo LGBT.
Ma nell’Irlanda di oggi non basta tutto questo per voltare pagina davvero. E il momento più atteso anche a Dublino è stato l’incontro tra papa Francesco e le vittime degli abusi commessi dai sacerdoti. Perché – al netto dell’empatia che il personaggio Bergoglio non ha mancato di suscitare anche tra gli irlandesi – quella resta la ferita da risanare. Ed è una ferita di fronte alla quale non bastano le parole anche sincere di vergogna e di dolore pronunciate da un Pontefice per il comportamento di alcuni preti. Proprio il caso irlandese dice che il problema è ben più profondo: chiama in causa la struttura stessa della Chiesa, la distanza tra ciò che predica sulla sessualità e certi suoi comportamenti e pure quel vizio insidioso del clericalismo così facilmente pronto a coprire persone e comportamenti per il buon nome dell’istituzione.
Del resto proprio mentre papa Francesco stava per arrivare a Dublino lo scandalo pedofilia riesplodeva in tutta la sua gravità in quel cattolicesimo americano che ha uno dei suoi pilastri proprio in tante comunità di emigrati dall’Irlanda. Due vicende in particolare hanno scosso in queste settimane i vertici della Chiesa cattolica negli Stati Uniti: prima ci sono state le accuse che hanno travolto l’arcivescovo emerito di Washington, il cardinale Theodore McCarrick. Su un pezzo da novanta dell’establishment episcopale sono emerse non solo accuse credibili su abusi commessi nei confronti di giovani e seminaristi, ma anche sconcertanti silenzi da parte di chi sapeva e non ha fatto nulla per fermare la sua carriera ecclesiastica.
A completare il quadro sono poi arrivate le conclusioni del Gran Giurì della Pennsylvania sull’operato di sei diocesi locali in tema di abusi sui minori. Novecento pagine di atti che parlano di violenze commesse nell’arco di settant’anni da oltre 300 sacerdoti con più di mille vittime; e – anche in questo caso – emergono risposte del tutto inadeguate da parte delle autorità ecclesiastiche che avrebbero dovuto vigilare e invece si sono preoccupate solo di mettere a tacere lo scandalo. Un quadro che la stessa Conferenza episcopale degli Stati Uniti ora non esita a definire una «catastrofe morale».
Dopo il viaggio apostolico di inizio anno in Cile – con lo scivolone sul caso Karadima, altro influente sacerdote locale coperto dai vescovi e la cui vicenda papa Francesco solo a posteriori ha compreso in tutta la sua portata, prendendo provvedimenti nei confronti dei presuli – anche la tappa in Irlanda rilancia dunque in tutta la sua drammaticità il tema degli scandali. È il grande paradosso di Bergoglio: alla grande popolarità della sua persona e del suo messaggio sui grandi temi globali – ben poco scalfita da cinque anni di Pontificato, se si eccettua l’avversione da parte dei circoli cattolici più tradizionalisti – fa da contraltare l’immagine di una Chiesa che pare proprio non cambiare, prigioniera di abitudini, vizi, persino comportamenti criminali nascosti sotto il tappeto.
Nei suoi discorsi papa Francesco prende spesso di mira il clericalismo; lo indica come il male più insidioso. E non è difficile vedere un filo rosso tra quest’idea di uno status religioso come potere e gli abusi sessuali commessi dai sacerdoti nei confronti di minori. Ma la domanda vera è: che profilo ha una Chiesa cattolica non clericale? Ed è disposta l’attuale Chiesa cattolica a lasciarsi mettere in discussione davvero per assumere questo nuovo volto? L’esperienza dell’Irlanda dice che è sulla risposta a questa domanda che si gioca molto del suo futuro in Occidente.