Fra le trame del cemento armato

Nel 1993 sono l’allora primo ministro Carlo Azeglio Ciampi e Mario Draghi direttore generale del Tesoro a indicare il destino di Autostrade, ossia il suo trasferimento in mani private, per alleviare la travagliata situazione economica dell’Italia. Il passo iniziale è la vendita di Enichem, con il suo corredo di cadaveri eccellenti (Gardini e Cagliari); seguono le società dell’Iri (Autogrill, Autostrade, Sme), della Telecom, di Comit, Credit, Banco di Roma e quote di Eni ed Enel. Se ne ricavano circa 182mila miliardi di lire, meno di 100 miliardi di euro: l’affare lo concludono gli acquirenti – i soliti noti, cresciuti e pasciuti all’ombra delle logge massoniche – non il venditore, che è poi lo Stato.
Nel ’96 è primo il governo di Romano Prodi a ufficializzare la cessione di Autostrade per abbattere il debito pubblico ed entrare nell’euro. Viene stabilito un meccanismo di adeguamento delle tariffe molto generoso nella speranza di allettare gli investitori. Per lo stesso motivo nel ’97 la concessione ad Autostrade viene prorogata dal 2018 al 2038. Scelte vanamente contestate da Corte dei Conti e Unione europea e che oggi sono considerate un grazioso regalo ai futuri acquirenti. Nel ’99 il nuovo presidente del consiglio Massimo D’Alema mette la firma definitiva. L’affare si presenta, dunque, sostanzioso, eppure c’è un solo concorrente, la famiglia Benetton con un corredo di piccoli azionisti e di alcuni istituti di credito (Unicredit, Rolo Banca, Cassa di risparmio di Torino) riuniti nella società Schemaventotto. A vegliare la Mediobanca di Cuccia, l’uomo più potente d’Italia, ai cui voleri si piegano tutti, da Agnelli a De Benedetti.
I quattro fratelli Benetton (Luciano, Giuliana, Gilberto e Carlo) hanno avuto l’intelligenza all’inizio degli anni Novanta di capire che la società tessile fondata nel 1965, che ha dato lustro, quattrini, notorietà internazionale, era oramai un frutto maturo. Avevano da investire il tesoretto accumulato con i maglioni e hanno subito adocchiato il bersaglio giusto, la Sme dell’Iri, che aveva in pancia Autogrill, con l’esclusiva delle stazioni di servizio nella lunghissima rete autostradale italiana, e i supermercati GS. Nel ’95 sborsano 700 miliardi di lire, circa 400 milioni di euro. Dopo tre anni rivendono a Carrefour la sola catena GS, e senza il patrimonio immobiliare, per 6000 miliardi di lire. Adesso hanno i soldi per acquistare Autostrade: il colpo grosso, quello che deve assicurare il benessere economico senza penare dietro gli umori e i ghiribizzi del mercato, delle mode, delle tendenze. Il 30 per cento costa 2 miliardi e mezzo di euro, giusto il guadagno realizzato con GS.
Dal centrodestra berlusconiano, in quei mesi all’opposizione del centrosinistra targato D’Alema-Cossiga, ci si chiede se il prezzo sia congruo. Ma sì che è congruo: l’assicura il professor Giancarlo Elia Valori, nominato presidente di Autostrade per l’improvvisa fama di mago delle privatizzazioni, acquisita proprio con la cessione di Sme ai cari e intraprendenti fratelli trevigiani. Una compagnia di giro ormai collaudata, tuttavia nessuno eccepisce. I Benetton risultano simpatici, ammanigliati con diversi centri di potere, prodighi di pubblicità a giornali e tv. Valori, da parte sua, incute timore: le sue conoscenze spaziano dai servizi segreti al Vaticano, dov’è cameriere di cappa e spada. Uno dei pochissimi nemici dichiarati è Prodi, con il quale è entrato in rotta di collisione durante la gestione dell’Iri. Un altro è Gelli: lo ha espulso dalla loggia P2 perché gli faceva ombra in Sud America e questo ha consentito al soave, piissimo figlio di Maria di cavarsela nell’inchiesta giudiziaria. 
Chi può, insomma, dubitare della parola di un simile personaggio? Per di più Autostrade colloca in Borsa il 56 per cento del pacchetto azionario con un incasso di 6 miliardi. Sembrano tanti, sono briciole. Lo si capisce nel 2003 allorché Schemaventotto lancia un’opa totalitaria su Autostrade per 11 miliardi. Li recupera con i pedaggi in soli tre anni. E già con i proventi dei caselli i Benetton hanno acquisito partecipazioni in Autostrada Milano-Torino, in Grandi Stazioni, negli aeroporti di Torino e Venezia, cui aggiungeranno il gioiello della corona, il controllo dell’aeroporto romano di Fiumicino. I quattro fratelli se ne fregano perfino dell’intimazione dell’Antitrust: aprire le strade italiane anche ad altri concorrenti della ristorazione. Risolvono con una multa di 16 milioni di euro nel 2004.
Padroni di Autostrade, il primo provvedimento dei Benetton è di licenziare Valori: una decisione, che molti leggono come una vendetta postuma di Prodi. La nuova guida dell’azienda è Vito Gamberale, un manager assai sperimentato. È lui a separare le attività autostradali dalle altre. Nasce così Autostrade per l’Italia controllata al 100 per cento da Autostrade spa, quella che oggi si chiama Atlantia, la holding di partecipazioni controllata dai Benetton. Poi arriveranno le autostrade all’estero (complessivamente 14mila chilometri a pedaggio), il tormentato dossier delle nozze con il gruppo spagnolo Albertis, da impalmare alla modica cifra di 16 miliardi. Dieci anni di amori e disamori, che parevano essersi conclusi con la vittoria dei Benetton, ma sul punto di essere cancellati dal disastro di Genova.
Quando Gamberale lascia, sostituito dall’attuale ad Castellucci, raccomanda di vegliare quotidianamente sul ponte Morandi. Nel 2007 il secondo governo Prodi firma la convenzione attualmente in vigore con misteriosa segregazione degli atti. La conferma di un monopolio, in cui il regolato comanda sul regolatore. Il ministro dei Lavori Pubblici è l’ex magistrato Antonio Di Pietro: blocca l’acquisizione di Albertis e annuncia che la cuccagna è finita. Soltanto parole. Nel 2008 il governo Berlusconi vota, compreso Salvini, l’ennesima proroga pro Benetton. Nel 2013 il governo Letta aggiorna la concessione, prolungata fino al 2042, con piccole modifiche a vantaggio di Autostrade. La vigilanza passa al ministero dei Trasporti, ma nel nuovo accordo manca il riferimento esplicito e incontrovertibile sui controlli relativo alla manutenzione straordinaria delle infrastrutture come lo erano i lavori di rafforzamento dei tiranti del cavalcavia genovese. Ecco i margini d’incertezza presenti nel contratto sull’onere dei controlli e sugli ambiti d’ispezione del ministero: Castellucci li ha già impugnati per opporsi alla minaccia di revoca avanzata da Di Maio e sostanzialmente stoppata da Salvini.
Con il centrosinistra alla finestra, diviso nelle sue fazioni, accusato di aver protetto i Benetton – è vero a metà – incerto sulla posizione da prendere, la partita oggi si gioca fra la Lega e il M5S. La Lega è per strappare ad Atlantia più soldi possibili: dai risarcimenti per le vittime e gli sfollati alla ricostruzione del nuovo ponte, all’abolizione dei pedaggi in Liguria. Si parla di circa 3 miliardi di euro, in risposta ai 500 milioni offerti dalla società. Il braccio destro di Salvini, l’ombroso Giorgetti, ha già detto no alla nazionalizzazione, che sarebbe la diretta conseguenza della revoca o annullamento della concessione. In teoria sarebbe l’obiettivo del M5S, che affiderebbe ai processi e ai tribunali l’ammontare dei risarcimenti. Ma la revoca o l’annullamento della concessione viene giudicata dagli esperti assai complicata da ottenere, se non impossibile, con il rischio, anzi, di dover versare una ventina di miliardi ad Atlantia quale indennizzo.
Un’altra eventuale conseguenza di quella convenzione, che di sicuro ha prodotto la drastica riduzione delle ispezioni e soprattutto la netta divaricazione tra gl’investimenti programmati e quelli effettuati. Nel 2013, a esempio, sono stati spesi 2 miliardi anziché i 3 preventivati. Per la manutenzione si è scesi dai 700 milioni del 2015 ai 646 del 2016. E nel primo semestre dell’anno in corso siamo a 197 milioni contro i 232 dello stesso periodo nel 2017. In costante aumento invece, i guadagni: da quando se ne sono impossessati, i Benetton hanno ricevuto da Autostrade circa 15 miliardi. L’anno scorso i ricavi sono ammontati a 3,9 miliardi con un margine lordo di 2,4 miliardi. Per Atlantia numeri altrettanto succosi: 5,91 miliardi di fatturato, 1,1 miliardo di ricavi netti. Tanta abbondanza avrebbe dovuto consentire la cura di quanto avveniva sul quel ponte, per il quale il suo stesso costruttore, l’ingegner Morandi, in un documento del 1979 raccomandava interventi di robusto consolidamento.
Quei maledetti tiranti avevano problemi di corrosione, di umidità, di distacco di calcestruzzo. E la loro situazione era nota da tempo. L’annuncio di una catastrofe, cui mancava solo la data: 14 agosto 2018.

Related posts

La voce del silenzio

Oriente contro Occidente

Quell’America che si avvita su sé stessa