Cultura del cibo - Cucina di ieri, di oggi e di domani. Incontro con una storica di gastronomia, che prepara anche l’evento Lugano Città del Gusto in calendario dal 13 al 23 settembre
Il cibo è cultura. Non si dice niente di nuovo. Alimentarsi è animale, trasformare gli alimenti è già un’arte e ci vuole tecnica, scienza e fantasia. Poi ci sono ricette che si inseriscono in una tradizione e vengono tramandate, soprattutto dalle donne. Ma oltre alle ricette ci sono gli usi e costumi di un popolo nel suo modo di stare a tavola, di apparecchiare, di mangiare in compagnia, ma anche di coltivare, pescare, cacciare, allevare.
Marta Lenzi: «Studiare gastronomia significa interessarsi al contesto sociale dei popoli, alla storia, alla geografia, al commercio, ai viaggi, al sistema economico e culturale di agricoltura e allevamento»
La Dieta mediterranea, per esempio, è diventata patrimonio culturale immateriale dell’Unesco in quanto «promuove l’interazione sociale, poiché il pasto in comune è alla base dei costumi sociali e delle festività condivise da una data comunità, e ha dato luogo a un notevole corpus di conoscenze, canzoni, massime, racconti e leggende. La Dieta si fonda nel rispetto per il territorio e la biodiversità, e garantisce la conservazione e lo sviluppo delle attività tradizionali e dei mestieri collegati alla pesca e all’agricoltura nelle comunità del Mediterraneo».
Chi si occupa di storia della gastronomia studia la storia dal punto di vista del cibo e mai come in questo campo si può dire: fare di necessità virtù. Incontriamo Marta Lenzi, economista di formazione diventata esperta di gastronomia, oggi Project Manager di Lugano Città del Gusto, che aprirà le sue porte dal 13 al 23 settembre. «Gli uomini hanno scoperto così tanti ingredienti, quali ora troviamo sulle tavole del mondo, prima di tutto per fame. Altrimenti perché provare funghi, bacche, rane, insetti, ricci di mare, ostriche, molluschi, frutti dall’aria poco invitante? Poi l’elaborazione del gusto (e dei profumi, e dell’estetica dei piatti) nasce nelle cucine dei ricchi, quelli che la fame non sapevano neanche cosa fosse».
Marta Lenzi è affascinata soprattutto dal Rinascimento italiano. È un’epoca di cambiamenti, i piaceri e l’arte tornano con prepotenza dentro le corti, dall’America arrivano nuovi prodotti, come il pomodoro, il mais, la patata, il peperone e da Oriente già da qualche secolo si stanno facendo largo le spezie (fra cui lo zucchero, chiamato anche «sale degli arabi», che tramite questo popolo raggiunge la Sicilia e tutta l’Europa).
«Studiare gastronomia significa interessarsi al contesto sociale dei popoli, alla storia, alla geografia, al commercio, ai viaggi, al sistema economico e culturale di agricoltura e allevamento», prosegue l’esperta. «Per studiare la storia della cucina ci si avvale di testi di ogni genere, dai libri di viaggio alle biografie agli annali di storia e poi di tutto il campo dell’arte figurativa che offre numerosi indizi sulle usanze dell’epoca. I ricettari arrivano dopo e spesso, prima dell’epoca moderna, sono in un certo senso avari di informazioni. Il primo cuoco generoso, che non ha avuto paura di indicare con precisione (relativa, ma comunque) quantità e tempi di cottura, è stato Martino de’ Rossi, bleniese di Torre».
Marta Lenzi è stata per vent’anni la responsabile della Biblioteca Internazionale di Gastronomia che aveva sede a Lugano. Lì è diventata esperta di quello che è considerato il precursore della cucina moderna europea, proprio Martino de’ Rossi, innovativo perché attraverso il suo modo di trattare e tramandare le ricette, si inizia a considerare cultura il modo di cucinare. «Lo riprende Platina, uno storico umanista dell’epoca, che traduce in latino il libro di Martino, affinché il suo sapere gastronomico venga diffuso in tutta Europa. Si comincia anche a strutturare un ricettario secondo una logica moderna, con antipasti, primi, secondi, dessert, un po’ come si fa oggi, anche se non subito in maniera così precisa. E poi avviene un altro importante cambiamento: si smette piano piano di abusare delle spezie».
Spiega la studiosa che le spezie un tempo erano quelle erbe, radici o droghe che arrivavano da lontano e che costavano molto. Venivano dunque usate per dimostrare la propria ricchezza e rendere omaggio al prestigio dell’ospite. Anche lo zucchero e il sale erano considerate spezie e le più colorate, come lo zafferano per esempio, avevano anche la funzione di illuminare il piatto, che in genere veniva servito in sale buie rischiarate solo da candele. De’ Rossi invece è il primo cuoco della storia che dice di usare le erbe «secondo il gusto del mio padrone». Anche le verdure, che prima di lui non erano degne di stare sulla tavola dei nobili, come tutto ciò che veniva dalla terra, vengono rivalutate dal nostro cuoco bleniese che servì gli appetiti di ben due papi e della corte degli Sforza.
Anche la Rivoluzione francese porta una svolta nella storia della cucina: i cuochi francesi, già allora molto rinomati, non avevano più re e regnanti da servire. Escono dunque dalle corti e portano democrazia anche in ambito gastronomico, cominciando a lavorare in proprio e aprendo i primi ristoranti.
Viaggiano i cuochi, viaggiano i cibi, e così la polenta diventa il nostro piatto tipico, fatto di mais, che prima di Cristoforo Colombo neanche sapevamo cosa fosse (né gli americani sanno che da quei chicchi e con quel paiolo si può ottenere qualcosa che noi chiamiamo polenta); e l’insalata russa non è altro che un’insalata inventata in Russia da un cuoco francese di nome Olivier, partito a lavorare per gli Zar. Se in Russia volete quell’insalata, ordinatela quindi come «Salade Olivier», piatto là considerato francese…
Oggi non sono più solo gli studiosi o i medici, o gli architetti, a interessarsi di storia della gastronomia, mi confida Lenzi. Negli ultimi decenni è avvenuta un’altra rivoluzione: anche i cuochi si documentano, sono diventati intellettuali. Vogliono unire il piacere a un’alimentazione sana, la tradizione alla sorpresa.
«Nella Città del gusto proseguiremo tutti questi discorsi», mi assicura e basta guardare il sito luganocittadelgusto.ch per sapere che è vero. «Faremo incontri con gastronomi, chef, nutrizionisti, produttori locali e non, artisti, enologi ed esperti di turismo». La conoscenza di un posto passa anche attraverso la tavola: cosa sta dietro a un piatto? È un mondo che parla degli aspetti principali di un territorio. Ecco perché va tanto di moda adesso tutto quello che è legato al cibo. «Quello che ci interessa è sensibilizzare sulla qualità dei prodotti, prima di tutto. Io non so cucinare, per esempio, ma voglio sapere che il pomodoro e la pasta che unisco nel mio piatto sono buoni, curati, sostenibili».
Da 18 anni ogni anno viene scelta una città svizzera come capitale gastronomica, sempre a settembre, per la settimana del gusto. Quest’anno la manifestazione si terrà a Lugano, principalmente al padiglione Conza, al Palacongressi e a Villa Ciani. Ci saranno laboratori didattici, degustazioni, spettacoli teatrali e mostre. «Vogliamo informare, sull’alimentazione di ieri, di oggi e di domani; vogliamo far capire come si produce, come si degusta, come non si dovrebbe sprecare.
Abbiamo stretto collaborazioni con tutto il territorio, l’Usi, le eccellenze gastronomiche, la Compagnia Finzi Pasca, l’Accademia di Mendrisio. Il cibo come sempre unisce, mette tutti insieme a tavola, per un momento conviviale di piacere dove possono nascere discussioni interessanti e le idee fioriscono. La nostra regina sarà la polpetta, perché è simbolo di una cucina che può essere semplice o sofisticata, ma sempre etica, perché strumento di lotta allo spreco alimentare. E soprattutto è un piatto buono la cui prima ricetta documentata è del nostro Martino!».