Tutto è incominciato – o sarebbe meglio dire ricominciato – il 27 agosto scorso quando miliziani della Settima Brigata, che fa capo alle tribù leali all’ex regime di Gheddafi e adesso vicine al generale Khalifa Haftar, si sono scontrati nei quartieri meridionali della capitale libica con milizie rivali legate al Governo di Accordo Nazionale (con acronimo inglese Gna) guidato dal premier Fayez al-Sarraj, sostenuto oltre che dall’Onu da Italia, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. La ragione di questa nuova fiammata di guerra civile starebbe tutta nella possibilità di accedere agli introiti petroliferi del Paese e ai finanziamenti che arrivano alla Libia soprattutto dall’Unione europea.
Con le parole di Abdel Rahim al-Kani, comandante della Settima Brigata, la sua missione è sconfiggere «l’Isis dei soldi pubblici» che attualmente fa mancare beni di prima necessità ai cittadini e non paga nemmeno gli stipendi ai dipendenti della traballante macchina di governo di al-Sarraj. Fino all’aprile scorso, peraltro, la Settima Brigata era al soldo del Ministero della Difesa dello Gna, ma poi è stata disciolta. Non si capisce quindi se oggi si stia vendicando per motivi legati al suo scioglimento o – peggio – non sia lo strumento di un vero e proprio tentativo di colpo di Stato teso a liquidare al-Sarraj.
Non è un caso infatti che la rivolta della Settima Brigata arrivi proprio quando il premier ha cominciato ad affrontare l’annoso problema delle milizie (e della loro anarchia) che dalla caduta di Gheddafi fanno il bello e il cattivo tempo in Libia. I vari governi del dopo-dittatura, peraltro, non essendo ancora stato completamente ricostruito un esercito nazionale, per garantire la propria sicurezza sono stati e sono costretti ad arruolare i signori della guerra e i loro scherani che hanno effettivamente il controllo del territorio e saldi legami con le autorità tribali locali. Così il 31 agosto scorso al-Sarraj aveva nominato due militari responsabili dei rapporti tra milizie e Forze armate: il generale Mohammed al-Haddad e il generale Osama Al-Juwaili, nella speranza che cominciassero a fare pulizia e garantissero la calma soprattutto a Tripoli. Così non è stato e si è giunti alla proclamazione dello stato di emergenza.
Il futuro di al-Sarraj e della stessa Tripoli a questo punto dipende soprattutto dalla lealtà verso il premier di quella che al-Kani definisce l’«Isis dei soldi pubblici» (che con l’Isis non ha niente a che vedere) cioè l’insieme delle milizie che sostengono ancora il Governo di Accordo Nazionale. Si tratta delle Brigate Rivoluzionarie di Tripoli o «Prima Divisione» che fanno capo al Ministero dell’Interno, comandate da Haitham al-Tajouri; della Forza di sicurezza centrale Abu Salim, guidata da Abdul-Ghani Al-Kikli, detto «Ghneiwa» (e con questo soprannome viene spesso indicata la stessa Forza di sicurezza); della Brigata Al Nawasi o Ottava Divisione guidata da Abdul Raouf Kara, una formazione islamista di Tripoli che però ha sempre combattuto il Califfato, come del resto le Rada, Forze Speciali di deterrenza della polizia militare che fanno capo al Ministero dell’Interno. La Brigata al Nawasi e le Rada oltre che per la loro posizione anti-Isis si sono sempre distinte anche per l’ostilità contro l’uomo forte della scena politica libica, il generale Khalifa Haftar, ministro della Difesa e Capo di Stato maggiore del governo cirenaico di Tobruk antagonista di quello tripolino di al-Sarraj.
Più difficile da definire la posizione della Brigata 301 di Misurata, una delle formazioni più forti nel panorama delle milizie libiche, che è stata determinante per la sconfitta dell’Isis a Sirte nel 2016 e che fino ad agosto ha garantito il proprio appoggio, anche se un po’ defilato, al Governo di Accordo Nazionale. Al-Sarraj sabato 1. settembre aveva inviato a Misurata per chiedere aiuto il generale Mohammed al-Haddad. Ebbene, di lui si sono perse completamente le tracce. Inutile dire che sono risultati inascoltati gli appelli alla tregua del segretario generale dell’Onu António Guterres nonché dei quattro paesi che sostengono al-Sarraj: Italia, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti.
In tutto questo l’ambasciata italiana a Tripoli continua a rimanere aperta, in attesa che si chiarisca se la Settima Brigata sta agendo motu proprio o per conto ad esempio del generale Haftar che da tempo manovra per portare la milizia nel proprio campo. Si sa di suoi contatti con i suoi leader, Abdel Rahim al-Kani e il fratello, nonché con esponenti della tribù più importante della Tripolitania, i Warfalla, il cui sostegno fu cruciale per il regime di Gheddafi. Il tutto per far cosa? E se davvero Haftar, o chi per lui, stesse pianificando un colpo di Stato, oppure il governo di al-Sarraj crollasse in virtù della propria debolezza, cosa farebbe il quartetto che attualmente garantisce il proprio appoggio al premier? L’Italia, per il momento, ha escluso di far intervenire in Libia le proprie Forze speciali.