L’Italia del rancore

I sondaggi raccontano che due terzi degli italiani appoggiano il governo M5S-Lega con quest’ultima, che ha quasi raddoppiato i consensi ricevuti nelle elezioni di marzo, dal 17 al 31 per cento. Un sostegno così radicato da irridere alle rilevanti perdite della Borsa, –15 per cento, da quando in maggio si è insediata la compagine guidata dal premier Conte; alla crescita vertiginosa dello spread, da 150 a quasi 300 punti; ai rilevanti interessi del debito pubblico: i titoli decennali rendono il 3 per cento, mentre ai tempi del centrosinistra stavano appena sopra l’1 per cento. Né il così detto «governo del cambiamento» si è distinto per qualche radicale modifica che non sia l’avere un presidente del consiglio nella sostanza vice reale dei suoi vice nominali, Di Maio e Salvini.
Quisquilie per la massa dei sostenitori: la loro rabbia inesausta pretende soprattutto la punizione, la derisione, la cancellazione di quanti sono imputati di averli fatti sprofondare nelle difficoltà attuali, cioè i vecchi partiti. In primis quello democratico, a onta dei buoni risultati raggiunti, con il suo leader Renzi dipinto e trattato come un novello Craxi e buon per lui che non abbia avuto cedimenti sia sul versante femminile, sia sul versante dei quattrini. Ma tra le tante colpe di Renzi, che purtroppo si è rivelato un gagà di paese, la principale è quella di aver agevolato con inutili favoritismi i suoi defenestratori.
Grillo da un lato e Salvini dall’altro sono stati intelligenti nel capire che viviamo nell’età del rancore; che la globalizzazione ha lasciato dietro di sé una moltitudine incarognita dai problemi, dalle difficoltà, dall’improvviso impoverimento del livello di vita; che tanti di essa antepongono la possibilità di vendicarsi dei presunti colpevoli a qualunque scelta razionale. Entrambi hanno saputo sfruttare al meglio questo desiderio di vendetta. Grillo diventando il paladino di tutti i movimenti del No: all’alta velocità ferroviaria, al gasdotto sottomarino, ai vaccini obbligatori, alle perforazioni petrolifere, alle grandi opere, all’Expo di Milano, alle Olimpiadi di Roma. Salvini creando la psicosi del nemico alle porte: dagl’immigrati ai burocrati europei, dai miliardari stranieri in agguato alle organizzazioni non governative. E che non sia stato mandato via nemmeno uno dei 500mila irregolari, che aveva promesso di buttare fuori in un mese, viene giudicato poco meno di una licenza poetica.
L’unica via di salvezza è stata indicata da Lega e M5S nella negazione del progresso, causa di ogni male a confronto con il rassicurante passato, dove si era tutti più poveri, ma quasi nella stessa misura. Viene proposto un modello da «piccolo mondo antico»: i negozi chiusi la domenica, l’Alitalia e i monopoli di nuovo in mano allo Stato, il ritorno della vecchia lira svalutata. E se in taluni paragoni si precipita dentro imbarazzanti similitudini con il ventennio fascista, con talune prese di posizione dal sapore mussoliniano, che problema c’è? L’assoluta ignoranza della Storia provvede a far assolvere l’incauto esegeta.
Proprio l’ultima tragedia, il crollo del ponte Morandi a Genova, ha fornito l’esatta misura del sentimento dominante. Qualunque altro governo ne sarebbe uscito ammaccato, quello di Conte ne ha ricevuto un benefico rilancio. Il peso dei 43 morti, la responsabilità della catastrofe sono stati per intero attribuiti a quanti firmarono la privatizzazione della società Autostrade in favore dei Benetton. Sono stati chiamati in causa e additati alla pubblica riprovazione, D’Alema, Berlusconi, Monti, Letta, l’immancabile Renzi. Nessun accenno a Salvini, che nel 2008 votò a favore dei Benetton; nessun accenno all’indifferenza del ministero dei Trasporti, guidato dal pentastellato Toninelli, per gli allarmi degli ultimi mesi. La minacciata, ma improbabile revoca della concessione ai Benetton ha rilanciato un piano di nazionalizzazioni, che fa a pugni con le mille magagne dello Stato imprenditore. Le inchieste giudiziarie hanno stabilito che l’Anas, cui si vorrebbe affidare la gestione autostradale, è la società con il più alto tasso di corruzione e d’indagati.
Nella loro voglia della libbra di carne gl’italiani si costruiscono verità di comodo. L’imponente studio realizzato da Bobby Duffy, direttore della sezione inglese di Ipsos, su un campione di oltre 50 mila interviste realizzate dall’istituto di ricerca in 13 Paesi, ha stabilito che siamo i primi nel distorcere i fatti. Siamo convinti che tra i carcerati il 48 per cento siano stranieri, in realtà il 34,4 per cento; che i musulmani rappresentino il 20 degli abitanti, in realtà il 3,7. Un recente sondaggio dell’istituto Cattaneo ha appurato che la presenza degli immigrati sul territorio nazionale è sovrastimata al quadruplo. Eppure nel 2018 in Italia ne sono arrivati meno di 15mila contro i 119’369 del 2017 e i 181’436 del 2016. Quelli residenti rappresentano circa il 9 per cento della popolazione, mentre sono il 12 in Germania e Francia, il 13 in Gran Bretagna, il 18 in Svezia, oltre il 22 in Svizzera.
Tuttavia Salvini continua a invocare misure drastiche, chiusure dei porti, estradizioni in Libia. Minaccia gli alleati europei di terrificanti rappresaglie e un numero cospicuo di connazionali gli va dietro, lo approva, promette di votarlo al punto da fargli valutare una crisi di governo per indire subito nuove elezioni e monetizzare il consenso. Nell’immediato la sua opera, i suoi proclami hanno prodotto un preoccupante aumento degli episodi d’intolleranza contro zingari, neri, omosessuali. Paradossalmente i più allarmati sono i piccoli imprenditori, che hanno votato compattamente per la Lega, ma per i quali la manodopera straniera è di fondamentale importanza. In talune acciaierie del bresciano, dove Salvini stravince, costituiscono il 73 per cento degli addetti.
Sul lavoro purtroppo il Paese annaspa. Non a caso se ne occupa Di Maio, uno dei massimi beneficiati dall’involuzione in atto: in pochi anni si è trasformato da steward dello stadio San Paolo in sussiegoso economista, che però ignora totalmente il valore della ricerca scientifica. Ha spacciato la disoccupazione quale «decreto dignità»; tra incompetenza e arroganza è stato sul punto di mandare all’aria una buona soluzione per l’Ilva di Taranto con il rischio di lasciare a casa i 12 mila dipendenti; asseconda Salvini nel voler contrastare l’evasione fiscale abbassando le imposte agli evasori e introducendo varie sanatorie, invece di ridurre la spesa pubblica e di applicare agli evasori la stessa «cattiveria» con cui sono stati trattati i profughi eritrei. In compenso Di Maio continua a sostenere il reddito di cittadinanza: significa concedere 780 euro netti al mese a molti evasori fiscali, magari a più di un pregiudicato, a chi mai ha cercato un lavoro con il pericolo d’innescare pericolose reazioni in un’Italia, che non brilla per senso civico. Perché preoccuparsi di versare i contributi previdenziali avendo comunque la certezza d’incassare una cifra rilevante, 780 euro rappresentano oggi la pensione di chi percepisce una retribuzione da 25mila euro l’anno?
Ma è l’attuale sistema pensionistico a essere sotto la scure di M5S e Lega: avevano promesso ai loro elettori di abolirlo per metterli in quiescenza alla stessa età di quando la vita media durava quindici anni di meno. Significa creare un peso fiscale sempre maggiore per i giovani e per le generazioni future. In linea con la «decrescita felice» strombazzata da Grillo, cioè una povertà accompagnata da sorrisi obbligatori, più o meno ciò che capitava nell’Urss, dove Putin faceva l’apprendistato da agente del Kgb. Lo stesso Putin nel cuore di Grillo, di Salvini; l’amico fedele, cui rivolgersi se l’Europa dovesse contrastare la totale mancanza di un progetto economico vantata quale cambiamento. Lo stesso Putin profeta di un autoritarismo, che non dispiace a Davide Casaleggio, il quale ha già proclamato l’inutilità del Parlamento. E il suo unico merito è di esser figlio di Gianroberto, l’inventore dei 5 Stelle, e di aver quindi ereditato le chiavi della «piattaforma Rousseau», il complesso sistema operativo che controlla, a guisa di Grande Fratello, l’intero movimento.
Gli italiani però apprezzano. Grazie a Salvini e a Di Maio hanno trovato il perfetto capro espiatorio di ogni fallimento, pubblico e privato, contro il quale indirizzare il proprio risentimento. Sono convinti che le promesse anticipino la realtà. E se non dovesse accadere, la responsabilità sarà di quelli che c’erano prima. Siamo stati male e c’è la quasi certezza di stare peggio.

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