A quarantadue anni John Philip Jacob Elkann, detto Yaki, conserva fisionomia e capigliatura da putto rinascimentale. Ma dietro quest’aspetto delicato c’è una scorza temprata da oltre vent’anni di prima linea nel ruolo assai esposto di erede designato di un casato, gli Agnelli, che ha segnato il Novecento italiano. Padroni della Fiat e di tanto altro bendidio, dai giornali alle assicurazioni, hanno spesso piegato il Paese alle proprie esigenze dietro il falso slogan che quanto andava bene alla Fiat, andava bene all’Italia. L’unica attenuante lo charme di Gianni, capace per cinquant’anni d’incantare ogni platea, d’inorgoglire e abbindolare con il proprio successo planetario i tanti provinciali pronti a comprare le sue auto e ad accettare che le autostrade si mangiassero le ferrovie.
A differenza del nonno, che conferita la presidenza al professor Valletta nel 1946 si dette alla bella vita fino all’età matura, Elkann è stato messo a bottega già a ventun anni. Un’investitura frutto del cancro, che aveva portato via il trentatreenne Giovannino, figlio di Umberto Agnelli e nipote di Gianni, la cui nomina a futuro numero uno doveva servire anche da risarcimento a talune imposizioni esterne subite dal padre; e frutto pure dello straniamento di Edoardo, il primogenito di Gianni, in allontanamento quasi volontario dalla famiglia e dall’azienda.
Una trafila assai veloce quella di Elkann, però segnata da scelte traumatiche. La prima e la più dolorosa ha riguardato la rottura totale con la madre Margherita Agnelli. Un mese dopo la morte di Gianni Agnelli, febbraio 2003, era cambiato l’assetto della «Dicembre», la cassaforte dell’impero, fin lì divisa in parti eguali fra la moglie Marella, la figlia Margherita e il nipote John. Secondo le indicazioni del marito, la nonna aveva donato il 25% al nipote che era così salito al 58%. A Margherita erano andati conti correnti, immobili, quadri e sculture per 1200 milioni di euro, ma lei aveva ritenuto di esser stata comunque raggirata. Aveva pubblicamente affermato che il patrimonio del padre fosse molto più consistente e che era suo dovere difendere l’eredità dei cinque figli avuti nel secondo matrimonio. È incominciata una lite giudiziaria, che non ha portato ad alcun risultato, tranne far scoprire che il mitico Avvocato, in realtà dottore in legge, aveva beffato il fisco italiano come nessun altro, prima e dopo, con beni accumulati all’estero per circa un miliardo e mezzo di euro.
Elkann mai ha speso in pubblico una parola sul comportamento della madre. D’altronde non si ricorda una sua intervista sul privato, non esistono foto men che rituali e quasi sempre in occasioni ufficiali legate al lavoro. Impossibile trovare immagini dei suoi tre figli. Rarissimi gli scatti con la sorella Ginevra e quel simpatico matto del fratello, Lapo, benché raccontino di un legame assai profondo. Non lo si incontra ai party, alle feste, ai ricevimenti, dove sfilano i potenti. Ha persino lasciato la presidenza della Juve, una strepitosa cassa di risonanza mediatica, al cugino di secondo grado Andrea, il figlio di Umberto, attualmente l’unico a esibire il cognome del capostipite.
Una riservatezza più da Elkann che da Agnelli. Il nonno Jean Paul è stato un rilevante banchiere, industriale, rabbino capo di Parigi, appartenente all’elite ebraica europea al pari della nonna Carla Ovazza, discendente anch’essa da una famiglia di banchieri con la contraddittoria figura dello zio Ettore, amico di Mussolini fino al 1938 (promulgazione delle leggi razziali), animatore financo di un movimento giudaico-fascista, massacrato dai nazisti nel 1943 per impossessarsi dei suoi tesori.
Ma se deve al nonno Gianni l’ascesa, Elkann avrebbe conosciuto un futuro ben più gramo senza l’ultima intuizione del prozio Umberto, il minore dei sette figli di Edoardo, che ha funto per una vita da accompagnatore del carismatico fratello Gianni. Le sue ambizioni erano state stoppate, con il beneplacito di Gianni, dal veto di Enrico Cuccia per mezzo secolo dominus attraverso Mediobanca dell’economia e della finanza. Soltanto alla morte di Gianni, e defunto anche Cuccia, Umberto poté ricevere le insegne del comando, nella fase però più critica della Fiat, quando il fallimento pareva inevitabile. Stroncato in meno di un anno da un tumore al polmone, aveva già adocchiato Sergio Marchionne.
Lo inserì nel consiglio d’amministrazione e ne caldeggiò l’impiego ai massimi livelli. La cronaca dell’ultimo quindicennio racconta i considerevoli meriti di questo manager: ha salvato la Fiat lanciandola nell’empireo dei grandi marchi automobilistici; ha moltiplicato i proventi della holding, su tutti il marchio Ferrari; ha avuto la capacità di giocare d’anticipo con lampi geniali, il più importante: l’acquisizione della Chrisler con i soldi del contribuente statunitense, per altro restituiti fino all’ultimo centesimo.
La sua scomparsa obbliga adesso Elkann ad assumersi ogni responsabilità. Si ritrova da solo sul proscenio, che fin qui è parso non amare molto, a parte alcuni simposi sullo sviluppo dell’informazione, in tutte le sue branche antiche e moderne, e il finanziamento di una scuola d’elite, dove s’insegna a far nascere aziende. La mossa iniziale è stata la nomina del successore di Marchionne, l’inglese Mike Manley: per la prima volta, dopo centoventi anni, l’agglomerato Fiat, ora Fca, non è guidato da un italiano. Un tributo all’internazionalizzazione della holding da chi vive a Torino, dopo aver girato mezzo mondo, e ha fatto nascere i figli nell’ospedale legato da decenni alla generosità degli Agnelli.