Nuova picconata alla pace

L’aveva minacciato fin da gennaio e il 31 agosto, l’ha fatto. Trump ha annunciato che non finanzierà più l’Unrwa (United Nations Relief and Work Agency for Palestine Refugees), l’agenzia dell’Onu che assiste i rifugiati palestinesi. Ha avuto otto mesi per riflettere sulle conseguenze della sua decisione e si presume che l’abbiano informato sulle conseguenze negative che avrà su milioni di persone in Cisgiordania, Gaza, Giordania, Libano e Siria, ma non è servito a niente. Pur di spingere la leadership dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) ad accettare il suo piano di pace per il conflitto arabo-israeliano, il presidente americano ha tirato dritto per la sua strada, ha progressivamente sospeso l’erogazione di quasi 200 milioni di dollari in aiuti bilaterali ai palestinesi e versato all’Unrwa solo 60 dei 368 milioni di dollari che ancora nel 2016 faceva arrivare nelle sue casse, un terzo dell’intero bilancio dell’organizzazione.
Non bastasse, il 10 settembre scorso ha ordinato la chiusura della rappresentanza diplomatica dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) a Washington perché – a suo dire – «Non fa abbastanza per la pace» israelo-palestinese, detto in altre parole perché i palestinesi non hanno accettato il suo piano di pace. In che cosa consiste, allora, il piano di pace ideato dal presidente americano?
Il primo passo è stato il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele il 6 dicembre dell’anno scorso che, se ha fatto felici gli israeliani, ha rappresentato un vero e proprio shock per i palestinesi. Il presidente Anp, Abu Mazen, ha avuto una reazione durissima, si è ritirato dal negoziato di pace e soprattutto ha ripudiato qualsiasi futura mediazione americana ritenendo che gli Stati Uniti non siano più gli «onesti mediatori» che avrebbero dovuto essere nella trattativa con Israele. In questo clima, il taglio ai finanziamenti dell’Unrwa non solo non ha spinto i palestinesi a tornare al tavolo negoziale, ma ha confermato Abu Mazen nel suo rifiuto mentre Hamas il 30 marzo scorso ha lanciato dalla Striscia di Gaza la cosiddetta Marcia del ritorno che fino ad oggi ha fatto almeno 166 morti e 18’000 feriti, Marcia che peraltro non è ancora terminata. Dal canto suo il presidente dell’Anp si limita a prestare un orecchio distratto alle proposte che gli arrivano dalla squadra incaricata da Trump di portare a buon fine il conflitto israelo-palestinese: suo genero Jared Kushner, nominato consigliere per il Medio Oriente e l’inviato speciale Jason Greenblatt, cui va aggiunto dietro le quinte l’ambasciatore israeliano negli Stati Uniti David Friedman.
È così che finalmente si è venuti a conoscenza del contenuto del piano di pace americano che fino ad oggi era rimasto avvolto nelle nebbie delle supposizioni. Lo ha illustrato proprio Abu Mazen agli attivisti dell’organizzazione israeliana Peace Now che ha incontrato il 2 settembre scorso. Il piano consiste sostanzialmente in un’Operazione Lazzaro cioè nel resuscitare un’ipotesi riapparsa più volte come soluzione per por fine al conflitto arabo-israeliano-palestinese: la Confederazione giordano-palestinese. Ne hanno discusso allo sfinimento in passato i defunti re Hussein di Giordania e il leader dell’Olp Yasser Arafat, ma non si è mai arrivati a realizzarla soprattutto perché Arafat non intendeva sconfessare, accettandola, il diritto al ritorno in patria dei palestinesi.
Quanto ad Abu Mazen, il 2 settembre per fare abortire la proposta, ha «suggerito» agli americani di inserire nella Confederazione anche Israele, essendo più che certo che lo Stato ebraico non accetterà mai questa soluzione. Re Abdullah II di Giordania, dal canto suo, fino ad oggi non ne ha mai voluto sentir parlare. Per i palestinesi, in tutti i casi, il diritto al ritorno resta il punto cardine di qualsiasi negoziato di pace, non ultimo perché il suo corollario naturale è la creazione nella Palestina storica di due Stati, uno israeliano e uno palestinese. Visto nell’ottica dell’attuale premier israeliano, Benjamin Netanyahu e di Trump, la via più breve per affossare l’uno e l’altra è stata proprio tagliare i fondi all’Unrwa. Vediamo perché.
Il problema nasce dalla guerra del 1948, quella che scoppiò tra lo Stato ebraico e gli Stati arabi all’indomani della dichiarazione di indipendenza di Israele, il 15 maggio. Israele vinse il primo round del conflitto peraltro ancora in corso, il cui risultato più penoso fu una consistente diaspora palestinese quantificata in circa 700’000 persone che – spinte nei paesi vicini dai combattimenti – non poterono fare ritorno alle proprie case. Sia chiaro che palestinesi e israeliani forniscono cifre e cause del tutto diverse per la diaspora palestinese: i primi parlano di un milione e mezzo di persone «cacciate dalla Palestina storica», i secondi di 350’000 «dislocate dal conflitto». La cifra di 700’000 è quella ufficializzata, appunto, dall’Unrwa che venne creata appositamente dall’Onu l’8 dicembre del 1949 proprio per assistere solo e soltanto i palestinesi fuoriusciti. Del loro futuro in prima istanza si era già occupato l’articolo 11 della risoluzione n. 194 dell’11 dicembre 1948, che sanciva il diritto al ritorno di quelli che allora venivano ancora definiti «profughi palestinesi».
A chiarire cosa si intendesse per rifugiato intervenne nel 1951 la Convenzione di Ginevra per la quale il rifugiato è una persona fuggita da casa che non potendo o non volendo tornare in patria per timore di essere perseguitato «per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche», ha bisogno di trovare aiuto e protezione in altri Stati e tale aiuto e protezione li chiede. Profugo, invece, è chi, essendo fuggito dal proprio paese per le più diverse calamità (dalla guerra alla carestia) non è nemmeno o non è ancora in grado di chiedere la protezione internazionale. Detto in parole povere il rifugiato gode di uno status legale internazionale, il profugo no.
Dei rifugiati in generale dal 1950 si occupa l’Unhcr, United Nations High Commissioner for Refugees, che si adopera per farli tornare in patria o integrarli nel paese in cui hanno ricevuto asilo o in un paese terzo. In questi casi, i rifugiati perdono il loro status, legalmente cioè non sono più rifugiati. Quelli palestinesi invece possono trasmettere lo status di rifugiato ai loro discendenti in virtù del diritto al ritorno in patria che è stato loro riconosciuto – come dicevamo – dalla risoluzione n. 194 del 1948.
Quella dell’Unrwa doveva essere una soluzione provvisoria e invece l’agenzia opera ormai da 70 anni ed è la «cosa» più vicina ad uno Stato-ombra che i palestinesi abbiano mai avuto. Oggi assiste non solo quanti sono ancora in vita dei rifugiati del 1948 (da 30’000 a 50’000), ma anche i sopravvissuti dei rifugiati della guerra dei Sei giorni del 1967 (da 280’000 a 325’000), più tutti i loro discendenti che sono almeno 4’950’000 per un totale di 5’149’742 persone (dati del 2015) raccolte nei campi di Gaza, Cisgiordania, Giordania, Libano e Siria. Assistere significa fornire ai palestinesi scuole di ogni ordine e grado, ospedali fissi e mobili, lavoro e cibo in caso di carestia o grave penuria alimentare come spesso si è verificato nella Striscia di Gaza bloccata da Israele. Secondo gli Usa e Israele, degli oltre 5 milioni di assistiti dall’Unrwa, solo una parte è realmente costituita da rifugiati.
Non si può cioè essere considerati rifugiati per decenni perché lo status di rifugiato dovrebbe essere di per sé temporaneo. Quello che nel caso dei palestinesi lo protrae nel tempo è proprio il diritto al ritorno che viene ereditato di padre in figlio. A riprova che lo status di rifugiato viene considerato come frutto di un’emergenza temporanea c’è inoltre il fatto che nessun paese arabo ha mai integrato i palestinesi fuggiti dal conflitto in Palestina. Con l’unica eccezione della Giordania, non hanno concesso loro la cittadinanza «per evitare la dissoluzione della loro identità e proteggere al tempo stesso il loro diritto al ritorno in patria» e in pratica li hanno rinchiusi in campi sovraffollati, impedendo loro di lavorare al di fuori, perché li hanno sempre temuti economicamente e politicamente.
Il tentativo di rovesciare il trono giordano nel 1970 da parte di organizzazioni estremiste palestinesi e lo scoppio della guerra civile in Libano nel 1975 rappresentano due esempi eclatanti delle conseguenze nefaste dell’instaurazione da parte palestinese di uno «Stato nello Stato» in entrambi i paesi. Ma auto-proclamarsi sostenitori della causa palestinese ha legittimato molti raïs mediorientali a consolidare le proprie dittature e a dichiarare guerra a Israele con l’unico scopo di garantirsi la leadership del mondo arabo e convincere i rifugiati palestinesi che solo una sconfitta militare dello Stato ebraico avrebbe garantito davvero il loro diritto al ritorno in patria.
Per quel che riguarda Israele non è un mistero che l’attuale governo consideri la Giordania come la patria «naturale» dei palestinesi e molti dei suoi ministri sarebbero felici di trasferirceli tutti. È altrettanto vero però che Israele non accetterà mai di essere «invaso» da 5 milioni di palestinesi come in teoria preconizza il loro diritto al ritorno. Quello demografico è uno dei dossier più delicati della politica israeliana strettamente interconnesso com’è al problema della sicurezza.

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