Alcuni quotidiani indiani, all’indomani della visita del Segretario di Stato americano Mike Pompeo e del Segretario alla Difesa John Mattis hanno entusiasticamente titolato che: «L’India entra nella Nato». Sottolineando con un titolo a effetto la firma di un trattato definito una pietra miliare nei rapporti tra Washington e New Delhi. Si tratta del Communications Compatibility and Security Agreement, per brevità Comcasa: un accordo che gli Stati Uniti hanno firmato con una trentina di paesi in tutto il mondo e che garantisce tutta una serie di benefici in termini di condivisione di informazioni militari e di intelligence e di difesa. Garantisce inoltre all’India, e da qui i titoli dei quotidiani, l’accesso a un sistema di comunicazione militare che si chiama Link 16 e che è stato concepito in origine per i paesi facenti parte della Nato. Nel passato recente la Corea del Sud ha ottenuto accesso al Link 16, e adesso l’India.
Pompeo ha dichiarato che «È cominciata una nuova epoca per le relazioni tra India e Stati Uniti». D’altra parte, già da qualche anno, a livello strategico le relazioni tra i due Paesi hanno subìto un deciso cambio di rotta rispetto al passato: cambio di rotta inaugurato dalla firma del trattato sul nucleare a opera di Manmohan Singh, e proseguito poi negli anni con la firma di una serie di trattati in materia di Difesa e di trattati commerciali tanto che, al momento, gli Stati Uniti sono il secondo fornitore di armi al Paese. Non che tra Washington e Delhi sia sempre filato tutto liscio: gli interessi statunitensi non sempre coincidono con quelli indiani, e nei mesi scorsi si sono rilevate alcune frizioni di rilievo.
L’India ha forti interessi in Iran, nel porto di Chabahar anzitutto. Dipende in modo sostanziale dal greggio iraniano, e non ha alcuna intenzioni di seguire gli Stati Uniti nel rinnovo delle sanzioni contro Teheran. New Delhi ha inoltre ordinato a Mosca un sistema di difesa missilistico chiamato S-400, nonostante le sanzioni americane sugli acquisti di armi dalla Russia. A questo proposito Pompeo ha dichiarato che: «Gli Stati Uniti capiscono la storia dei rapporti tra l’India e la Russia…Non abbiamo intenzione di penalizzare un partner strategico di grande rilievo come l’India» e, a quanto pare, gli americani stanno lavorando a una specie di «dispensa presidenziale» che consenta a New Delhi di comprare armi e greggio senza violare le sanzioni americane. A fare da collante, difatti, sono motivazioni più stringenti.
Come la comune preoccupazione per le aggressive strategie espansionistiche cinesi in tutta l’area geopolitica: la cosiddetta nuova Via della Seta, l’Obor, considerata da molti il moderno avatar dell’antica east India Company, e in particolare il Cpec, il China Pakistan Economic Corridor, ma non solo. Nell’equazione entra anche la strategia cinese nel South China Sea e, dulcis in fundo, la preoccupazione condivisa tra India e Stati Uniti per il terrorismo di matrice pakistana. In effetti, prima di arrivare a Delhi, Pompeo si è fermato, per cinque ore appena, a Islamabad dove ha incontrato il neo-eletto primo ministro Imran Khan, un paio di ministri del governo e i generali a capo delle Forze Armate e dei servizi segreti considerati dai più, in Pakistan, i veri governanti del paese.
La visita, al netto delle dichiarazioni di circostanza rilasciate da entrambe le parti, non è stata esattamente amichevole. Arrivava subito dopo l’annuncio che Washington ha sospeso 300 milioni di aiuti militari al Pakistan e dopo l’ormai famosa inclusione del paese nella grey list dell’Fatf avvenuta a giugno. Gli americani cercano di costringere il Pakistan a smetterla di fornire protezione e supporto ai talebani afghani, con cui sono state di recente intavolate trattative dirette a Doha. La questione del terrorismo e, in particolare, dell’Afghanistan, è scottante e resa ancora più delicata dalla vittoria alle elezioni di Imran Khan. Imran è stato soprannominato in patria «Taliban Khan» per le sue posizioni estremiste. È un sostenitore dichiarato della giustizia tribale dei talebani, e da anni attribuisce agli americani, e ai bombardamenti con i drone, la colpa dell’avvento del terrorismo in Pakistan.
Dopo la visita di Pompeo, e mentre il Segretario di Stato firmava i trattati a Delhi, Imran Khan dichiarava che: «Il Pakistan non combatterà mai più le guerre di qualcun altro», con chiaro riferimento all’Afghanistan e alla solita narrativa pakistana. Islamabad, secondo i suoi governanti, è vittima del terrorismo, degli americani e di tutto il resto del mondo. Un’adolescenza prolungata, per essere clementi. Che non riesce a uscire dalle usurate strategie dei doppi giochi, del terrorismo usato come principale mezzo di politica estera, da una concezione ormai vecchia dell’ordine mondiale. E il fatto che al governo sia stato mandato un sostenitore dell’esercito, dei talebani e di jihadi vari non promette per niente bene. L’India è ormai entrata a far parte del resto del mondo, mentre il Pakistan sembra, come la mitica Brigadoon, allontanarsi sempre più dentro alle nebbie del passato.