L’ultima volta che il monte Fuji ha eruttato era il 1707. Da allora il simbolo del Giappone è silente – almeno dagli anni Sessanta, quando è stata registrata attività vulcanica e le scalate verso la sua vetta erano state sospese. Ogni anno infatti, e solo per una finestra di tre mesi, migliaia di giapponesi e di turisti salgono nottetempo fino al punto più alto, a 3.776 metri sul livello del mare, per vedere l’alba, e quindi il Sol Levante, immagine talmente emblematica che è presente perfino sulla bandiera nipponica. Nonostante i trecento anni che ci separano dall’ultima eruzione, il «gigante che dorme» fa ancora paura, soprattutto dopo gli ultimi terremoti di intensità notevole e la pressione del magma interno che aumenta.
Per questo qualche giorno fa il governo di Tokyo ha istituito un panel composto da quattordici membri esperti per studiare gli effetti che potrebbe avere l’eruzione del vulcano più famoso del mondo sulla capitale. Nonostante i cento chilometri di distanza da Tokyo, la cenere vulcanica potrebbe fuoriuscire per giorni e costituire un problema di ordine pubblico. Del resto il Giappone è il Paese della riduzione del rischio, della prevenzione e dell’elaborazione degli scenari peggiori, soprattutto quando si parla di disastri naturali. Non è una questione di scaramanzia, ma di metodo: il primo passo per convivere in uno dei paesi più colpiti dalle catastrofi naturali è accettarle, secondo un princìpio che nei secoli ha trasformato il Giappone in uno dei paesi più resilienti del mondo. Così, anche il panel sul monte Fuji istituito dal governo non è stato accolto dalla popolazione come l’ennesimo spreco di denaro e di tempo, ma come un utile strumento per la sicurezza pubblica. C’è una ragione, specialmente in queste settimane.
Quella appena trascorsa è stata l’estate più difficile per il Giappone sin dal 2011, quando il terremoto e lo tsunami che hanno colpito la regione del Tohoku hanno provocato quasi sedicimila morti e più di duemilacinquecento dispersi. Questa estate, una serie di catastrofi naturali legate ai cambiamenti climatici e alla sismicità del territorio giapponese ha di nuovo messo alla prova la capacità del governo e della popolazione di reagire. Tutto è iniziato il 18 giugno scorso, quando la terra ha tremato a Osaka, un terremoto del sesto grado della scala shindo, la scala d’intensità sismica dell’Agenzia meteorologica giapponese – che è diversa dalle nostre, proprio per la specificità del territorio giapponese.
Cinque persone sono morte, almeno quattrocento sono rimaste ferite ma soprattutto centinaia di persone hanno dovuto trascorrere settimane nei centri per gli sfollati. Poco dopo, intorno alla fine di giugno, sono arrivate le piogge. Ventitré prefetture, otto milioni di persone coinvolte. Un evento epocale, che ha costretto l’Agenzia giapponese a trattare anche burocraticamente quelle precipitazioni come un «disastro naturale». Era dall’alluvione di Nagasaki del 1982 che la pioggia, con le conseguenti inondazioni e frane, non faceva tanti morti.
Fino ai primi giorni di luglio 54 mila membri delle Forze di autodifesa giapponesi hanno portato in salvo le persone nelle aree più colpite, tra le prefetture di Hiroshima, Okayama ed Ehime. Bussando casa per casa, recuperando intere famiglie dai tetti dei palazzi. Ma il problema, secondo il governo, sono gli anziani: in un Paese che invecchia sempre di più, le campagne sono isolate, e intere comunità faticano a trovare nuove generazioni a cui interessi ripopolarle. I vecchi sono soli, spesso non autosufficienti, e gli aiuti del governo attraverso l’assistenza sociale non bastano. La maggior parte delle vittime aveva più di 65 anni, tutti coloro che non sono riusciti a mettersi in salvo da soli prima dell’arrivo dell’inondazione.
Dicono gli esperti il governo di Tokyo deve iniziare a prendere seri provvedimenti: con la temperatura degli oceani in aumento, secondo l’Agenzia meteorologica giapponese l’arcipelago sarà sempre più spesso colpito da precipitazioni eccezionali simili. E la paura, adesso, arriva soprattutto in vista delle Olimpiadi del 2020 che verranno ospitate da Tokyo: nella parte est della città ci sono un milione e cinquecentomila persone che vivono sotto il livello del mare, sul fiume Arakawa. In caso di alluvione si stima che più di duemila persone potrebbero perdere la vita, per un danno economico complessivo di 550 miliardi di dollari.
Come nelle peggiori delle piaghe bibliche, dopo le piogge, in Giappone è arrivato il caldo. Tra luglio e agosto in tutto il Paese si sono registrate le temperature più alte sin dal 1945, e il termometro è rimasto per molti giorni oltre i quaranta gradi centigradi. Alla fine il governo di Tokyo ha contato 133 decessi legati all’ondata di caldo. La temperatura dell’aria, secondo gli scienziati, potrebbe essere parte della potenza registrata dal tifone Jebi, che ha raggiunto le coste giapponesi il 4 settembre. La fine dell’estate è tradizionalmente periodo di tifoni, ma da venticinque anni non si vedeva una potenza simile: tetti delle case scoperchiati, vetri in frantumi, undici morti. L’aeroporto internazionale del Kansai, che è costruito su un’isola artificiale nella baia di Osaka, è rimasto isolato per giorni, dopo che una petroliera colpita dalla tempesta ha danneggiato l’unico ponte che collega l’aeroporto alla terraferma. Due giorni dopo, il 6 settembre, un terremoto del grado 6,7 della scala shindo (il cui massimo è 7) ha colpito l’isola più a nord del Giappone, l’Hokkaido. Ad Atsuma, trentasei persone sono state investite da una frana che ha distrutto un intero villaggio. Quarantuno morti.
Tenbatsu, si dice in lingua giapponese, un monito del cielo: i disastri naturali di queste settimane hanno cambiato per l’ennesima volta la società giapponese, che era già passata attraverso lo shock del 2011, i morti e la distruzione. La prevenzione del rischio non è mai sufficiente, quando si tratta di disastri naturali. Lo sa bene il primo ministro Shinzo Abe, che tra poco sfiderà Shigeru Ishiba nella corsa alle primarie del Partito liberal democratico. Chi vincerà sarà il prossimo candidato alla presidenza. Il tema della campagna elettorale, a oggi, è quasi esclusivamente la gestione dei disastri.