La nascita dello Stato-nazione

by Claudia

Le date che hanno influenzato la storia – 6. Con la pace di Vestfalia, nel 1648, che pone termine alla Guerra dei Trent’anni fra cattolici e protestanti, si crea un nuovo ordine mondiale, fondato su un insieme di regole comuni e un equilibrio fra le potenze

Nelle mappe della nostra storia un tentativo di uscire da quell’Età del Caos che fu l’epoca delle grandi scoperte, arriva un secolo e mezzo dopo lo sbarco di Cristoforo Colombo in America. Una scuola di pensiero, di cui l’esponente più famoso è Henry Kissinger, vede nella Pace di Vestfalia (1648) un’altra data fondamentale che porta l’Europa nella modernità: la nascita di un ordine mondiale fondato sugli Stati-nazione. Tema attuale, visto che siamo in piena rivalutazione del sovranismo.
Avendo intervistato Kissinger, ho ricordato nel mio libro L’Età del Caos come lui definisce l’idea di un «ordine mondiale». Si tratta del concetto adottato da una regione del mondo o da una civiltà, per stabilire «accordi giusti e una distribuzione del potere applicabile al mondo intero». Si fonda su due componenti: un insieme di regole comuni accettate dalle parti; un equilibrio di potenze che imponga il rispetto delle regole, o comunque fissi dei limiti all’uso della forza, in modo da impedire che una singola potenza schiacci le altre. Premessa: dalla caduta dell’Impero romano nel 476 dopo Cristo, l’Europa entrò in una fase turbolenta e instabile. Culminata con la Guerra dei Trent’anni (1618-1648), una guerra di religione. Nel 1648, in due città tedesche della Vestfalia (Osnabrück e Münster) si riunirono 109 delegazioni in rappresentanza delle parti in conflitto. Ne vennero fuori diversi trattati, battezzati ex post «la pace di Vestfalia». Tra i firmatari: da una parte il Sacro Romano Impero degli Asburgo coi loro alleati cattolici; dall’altra parte le potenze protestanti del tempo che erano Svezia, Danimarca, Olanda; più la Francia che pur essendo cattolica aveva fatto un’alleanza «contro natura». Il 1648 crea un precedente importante: una pace collettiva firmata in occasione di un vertice multilaterale. Pone le basi di un ordine fondato sulla coesistenza fra Stati sovrani che si riconoscono reciprocamente come tali. Infine abbozza una sorta di equilibrio multi-polare che dovrebbe prevenire il predominio di una sola potenza sul resto d’Europa. È un sistema di regole che ci traghetta nell’era moderna, chiude con le pratiche del Medioevo, tenta di dare ordine e sicurezza ad un Rinascimento creativo ma instabile, geniale ma angosciato.
Uno dei principi che si afferma a quel periodo, anche se non dentro i trattati, è: «Cuius regio, eius religio». Ogni re può decidere quale religione (cattolica o protestante) si pratica nel suo territorio. È una forma di sovranità: un monarca non doveva immischiarsi nelle vicende interne del suo vicino. Si apriva l’età della diplomazia, un nuovo metodo per gestire le relazioni internazionali. Lo Stato diventava l’unità fondamentale, l’attore di questo nuovo gioco. Grandi o piccoli, forti o deboli, gli Stati vedevano riconosciuta la propria esistenza e dignità. Tuttavia, questo non significa che d’incanto regnassero pace e armonia. Dignità non vuole dire parità, i rapporti di forze contavano, alcuni Stati europei erano «più uguali degli altri». Ci furono altre guerre. Determinate il più delle volte da due fattori. Primo, l’emergere di una potenza in ascesa, decisa ad affermarsi a scapito dei suoi vicini. Secondo, l’emergere di un’ideologia con pretese «universali», decisa ad imporre i suoi valori. I più grandi shock per l’equilibrio europeo vennero dalla Rivoluzione francese – portatrice di ideali universali – e dal suo continuatore Napoleone. Al Congresso di Vienna nel 1815 fu aggiunto un nuovo elemento alle regole della Pace di Vestfalia: l’equilibrio di potenze. Concepito da Richelieu, applicato da Metternich e Talleyrand, l’equilibrio delle potenze era un delicato gioco di alleanze e contro-alleanze, finalizzato a evitare l’emergere di un singolo attore troppo forte. Ma i principi della pace di Vestfalia e dell’equilibrio fra potenze, continuarono ad essere destabilizzati, ogni volta che sulla scena emerse un’ideologia dalle pretese universali, che quindi si considerava legittimata a interferire negli affari interni dei vicini: fascismo, nazismo, comunismo, nel Ventesimo secolo. Oggi il fondamentalismo islamico non riconosce il principio «Cuius regio, eius religio»: quando ha la forza di dettare legge, applica la pena di morte agli infedeli, vuole rovesciare regimi non ortodossi. Putin è «vestfaliano» a giorni alterni: in nome della sovranità respinge sdegnosamente le interferenze straniere sui diritti umani in Russia, però i suoi servizi sono intervenuti nelle campagne elettorali altrui; l’annessione della Crimea è la prima violazione della sovranità di uno Stato europeo dalla fine della seconda guerra mondiale. La Cina ha un approccio analogo, anche i suoi dirigenti sono «vestfaliani» quando rifiutano le prediche occidentali sui diritti umani; ma nelle loro pretese di espansionismo territoriale si annettono isole contese da altri Stati, li mettono davanti al fatto compiuto, anziché cercare una soluzione negoziata per vie diplomatiche.

Se si torna a parlare di Vestfalia, è perché quella tappa storica nella costruzione delle sovranità, può aiutarci a riflettere sulla ragion d’essere dello Stato nazione. Era stato celebrato prematuramente il suo funerale, negli anni del globalismo trionfante: quando a Davos il Gotha della finanza celebrava il «mondo piatto», senza frontiere; i trattati di libero scambio venivano firmati con la promessa di maggior benessere per tutti; i confini europei con Schengen venivano consegnati al museo della storia; le élite senza distinzione fra destra e sinistra cantavano un futuro di «inevitabile» integrazione tra popoli a livelli sempre superiori; un progresso inarrestabile verso una governance mondiale, la società multietnica, la circolazione libera e illimitata di persone, capitali, idee, informazione.
Qualcuno, dalla favola globalista si era chiamato fuori molto presto. La Cina pur celebrando un mondo sempre più integrato economicamente, ha praticato il protezionismo che denunciava negli altri; ha costruito un Internet «separato», difeso da una Grande Muraglia di censura e controlli, consegnato ad alcuni campioni nazionali (Alibaba, Tencent) con sedi a Pechino e Shanghai. L’India non ha mai veramente aperto le sue frontiere come i paesi occidentali. Anche sulla società multietnica ci sono state delle opzioni diametralmente opposte. Cina e Giappone hanno sempre avuto un atteggiamento ostile verso l’immigrazione, costruendosi invece una cultura monoetnica e un’idea di forti gerarchie razziali. Il multi-culturalismo, la libera circolazione di idee o la tolleranza verso valori e costumi diversi, non sono stati praticati nella quasi totalità del mondo islamico.
Più di recente il nazionalismo che non era mai tramontato in tutto il resto del mondo, si è preso la sua rivincita anche in Occidente. Nell’arco di pochi anni dei leader che vengono definiti «sovranisti» hanno scalato il potere in America e nel Regno Unito, in Italia, Polonia, Ungheria, Austria.
Molti progressisti hanno reagito con orrore, spavento, condanna, interpretando questi eventi come una regressione, un ritorno al passato; magari evocando lo spettro degli anni Trenta con l’avvitamento in una spirale fatta di sciovinismo, xenofobia, fanatismo, odio dei diversi, fino al rischio delle persecuzioni razziali e delle guerre.
Guardare la storia nei tempi lunghi aiuta forse a sdrammatizzare il presente, o almeno a guardarlo con distacco e in una prospettiva diversa. Gli esperimenti globalisti che venivano perseguiti con entusiasmo e furore negli anni Novanta e all’inizio del terzo millennio, hanno creato molti perdenti in seno alle società occidentali. Né la globalizzazione economico-finanziaria né quella tecnologica né quella migratoria hanno creato quei benefici diffusi che erano stati promessi. I benefici sono stati molto vistosi nei paesi emergenti che tuttavia erano i meno «globalisti» nei loro comportamenti pratici e nelle loro strategie politiche. I benefici sono stati favolosi per le minoranze privilegiate dell’Occidente. Una parte dei perdenti è tornata a cercare rifugio nelle braccia dello Stato-nazione.
Dalla Pace di Vestfalia in poi, nei successivi 370 anni lo Stato-nazione non è stato solo una macchina da guerra, non è associato esclusivamente ai nazionalismi aggressivi, alle guerre, all’intolleranza verso l’Altro, alle persecuzioni razziali. È all’interno dello Stato-nazione che è nata la democrazia liberale e sono fiorite istituzioni che proteggono l’individuo, tutto ciò che chiamiamo lo Stato di diritto. È nello Stato-nazione che è nato un Welfare moderno per proteggere i più deboli.
Mettere un argine ai totalitarismi, contrastare le pulsioni autoritarie, è stato più facile laddove c’era una comunità nazionale relativamente omogenea e solidale, con una «coscienza nazionale»: i tiranni si sono appropriati più facilmente del potere nei vasti imperi multietnici, dove potevano giocare sulle rivalità tra le componenti. Non c’è mai stato un impero democratico. La nazione è lo spazio dentro il quale si è potuto formare storicamente un patto di cittadinanza, un contratto sociale fra governanti e governati.
Il nazionalismo è stato concepito molto a lungo come un valore positivo, perfino liberatorio: di certo lo vedevano così Mazzini e Garibaldi nel nostro Risorgimento, o i patrioti di tanti altri paesi europei che si rivoltarono contro gli imperi multinazionali austro-ungarico, ottomano, russo. Quasi tutti i progressisti ammirarono Gandhi, che non era solo un pacifista non-violento: era un sincero nazionalista indiano. I nazionalismi furono la fiamma dei movimenti d’indipendenza post-coloniali, e le sinistre occidentali resero omaggio a quei paesi che lottavano per liberarsi dal giogo imperiale. È opinabile che siano «nazionalismi buoni» solo quelli anti-occidentali; e che i nostri nazionalismi debbano sempre portarsi addosso il sospetto infamante di essere l’anticamera del fascismo, del nazismo.